Il gioco della Chiesa


Editoriale
Tredimensioni XVIII (2021) 2, 122-128


«Ci sono almeno due tipi di giochi. Uno potrebbe essere chiamato finito, l’altro infinito. Un gioco finito si gioca per vincerlo, un gioco infinito per continuare il gioco» [1]. Comincia così il testo di un autore che è stato per trent’anni direttore degli studi religiosi alla New York University. La teoria dei giochi, da branca della matematica, si è rapidamente estesa a quelle interazioni tra persone che possono generare un conflitto: il mondo economico è uno di questi, ed è stato approfondito da un motivatore anglosassone, tale Simon Sinek.

Muovendosi con libertà sul concetto e applicando la metafora del gioco alla vita, ci possiamo chiedere di che natura essa sia.

Iniziamo però da una chiarificazione: cosa differenzia i giochi finiti da quelli infiniti? Lo spiega Sinek:

I giochi finiti sono giocati da giocatori conosciuti. Hanno regole fisse. E c'è un obiettivo concordato che, una volta raggiunto, pone fine al gioco. Il football, per esempio, è un gioco finito. Tutti i giocatori indossano maglie che li rendono facilmente identificabili. C'è un insieme di regole e gli arbitri hanno il compito di farle rispettare […]. I giochi infiniti, al contrario, sono giocati da giocatori sia conosciuti sia sconosciuti. Non hanno regole precise o concordate. Benché possano esistere convenzioni e leggi che regolano la condotta dei giocatori, all'interno di questi contorni così ampi i giocatori possono operare come credono. E se decidono di rompere con le convenzioni, possono farlo […]. I giochi infiniti hanno orizzonti temporali infiniti. E poiché non c'è un traguardo, una linea d'arrivo, nessuna fine pratica al gioco, in un gioco infinito non esiste un concetto assimilabile al “vincere”. In un gioco infinito, l'obiettivo principale è continuare a giocare: perpetuare il gioco in sé [2].

Per questo motivo, attribuzioni come «imprenditore (o educatore, psicologo, insegnante…) dell’anno» perdono di senso, perché richiederebbero criteri universalmente accettati e una aprioristica decisione su quale debba essere l’arco di tempo per la misurazione. A giudizio di Sinek, mentre l’economia è parte di un gioco infinito, molti manager affrontano il loro ruolo con una mentalità finita, di corto raggio. Vogliono aumentare i profitti, battere i rivali, diventare più famosi e ricchi… Possono anche parlare di valorizzazione del personale e corroborare di etica la loro leadership; ma alla fine tutto è in funzione di una, quanto mai, indefinibile vittoria. I leader dalla mentalità infinita, invece, puntano su una giusta causa, su un obiettivo che non sarà mai raggiunto in modo pieno e definitivo.

Se si prova ad applicare questo tipo di mentalità alla vita, ecco cosa ne esce:

Le nostre vite sono finite, ma la vita è infinita. Noi siamo i giocatori con data di scadenza nell’infinito gioco della vita. Arriviamo e ce ne andiamo, nasciamo e moriamo e la vita continua, con noi o senza di noi. Ci sono altri giocatori, alcuni dei quali nostri rivali, sperimentiamo vittorie o subiamo sconfitte, e possiamo sempre riprendere a giocare l’indomani […]. E non importa quanti soldi guadagniamo, quanto potere accumuliamo, quante promozioni otteniamo, nessuno di noi potrà mai essere decretato il vincitore o la vincitrice della vita. In qualsiasi altro gioco, abbiamo di fronte due possibilità. Anche se non stabiliamo le regole del gioco, tocca a noi decidere se e come giocare. Il gioco della vita è un po’ diverso, abbiamo un'unica possibilità. Non appena nasciamo, siamo giocatori. La sola scelta che abbiamo a disposizione è come vogliamo giocare: con una mentalità finita o infinita [3].

Fin qui il pensiero della coppia Carse-Sinek, che offre spunti interessanti ma laterali rispetto alla rivista [4]. Ci provoca, però, e ci permette un’altra domanda: a quale gioco partecipa la Chiesa? I cristiani si devono concepire come partecipanti ad un gioco finito o infinito? La risposta, anche a partire dall’appartenenza disciplinare di Carse, sarebbe estremamente facile: i cristiani, per loro natura, sono parte di un gioco infinito, perché credono nella resurrezione e perché adorano il Dio vivente. Non v’è dubbio che il Vangelo abbia il sapore di un orizzonte infinito assai più che finito, senza dire che, in quanto esseri umani, i credenti in Cristo sono parte del flusso della vita, che appunto è da considerarsi “infinito”. Ma la vera domanda è un’altra: la mentalità dei cristiani (e di conseguenza la mentalità della Chiesa) è finita o infinita?

Possiamo provare ad immaginarci, come mero caso di studio, che cosa succederebbe se la Chiesa applicasse una mentalità finita alla propria missione. Presto detto:

·      i cattolici devono superare di numero le altre confessioni e i cristiani i musulmani

·      l’8 per mille dell’IRPEF degli italiani deve andare in prevalenza alla Chiesa cattolica

·      i matrimoni e i funerali religiosi devono superare quelli civili

·      la nostra parrocchia deve avere più giovani di quella accanto

·      il peso o la bontà di una congregazione religiosa dipende dal numero dei suoi consacrati

·      i nostri bilanci devono essere più floridi di quelli altrui

·      le parrocchie non possono assolutamente chiudere, perché si perderebbe il controllo del territorio

·      i parroci devono rigorosamente presidiare la canonica perché non sia mai che le finestre mostrino tristemente le tapparelle abbassate

·      le regole devono essere chiare e uniformi per tutti e i giocatori avere un segno caratterizzante che sia inequivocabile

·     i seminaristi, i novizi, le novizie, le aspiranti… i numeri devono dare ragione del “successo” della nostra pastorale vocazionale

·      i piani pastorali devono dotarsi di obiettivi concreti e misurabili, per dirci se li abbiamo centrati oppure no, se quest’anno abbiamo fatto meglio o peggio dell’anno scorso. Il business ci ha insegnato marketing e misurabilità, e noi li assumiamo.

E questo mentre parte del business cambia i propri criteri, parlandoci di giusta causa o di etica coraggiosa. Insomma, potremmo tristemente immaginarci una Chiesa che si converte al business, proprio mentre il business si converte alla mentalità dell’infinito.

Ma la Chiesa è salva, perché la mentalità del gioco infinito è esattamente quella del Vangelo, dove non ci sono target da centrare e successo in base al quale misurarsi gli uni con gli altri. Il Vangelo si estende ad ogni uomo e ad ogni tempo e la Chiesa è permeata di questa stessa prospettiva. Quello che succede attorno al proprio campanile viene compreso in uno sguardo più ampio, più esteso, perché fa suo lo sguardo di Dio e non si preoccupa del successo di corto raggio. Il Vangelo ha come estensione un campo che si irraggia agli estremi confini della terra. E, se si è costretti a fare i conti con le realtà finite, non ci si dimentica che non vanno prese troppo sul serio proprio per la loro provvisorietà. Quando viene meno un credente, un vescovo o addirittura un papa, il bello è che il gioco della Chiesa andrà avanti ugualmente: se il gioco è infinito, i partecipanti muoiono “durante” il gioco ed esso non ha fine con loro [5]

Lasciandosi provocare da alcuni concetti chiave di una mentalità infinita, ripercorriamo con Sinek la prassi della Chiesa.  Essa è chiamata a vivere secondo le seguenti direttrici.

  • Giusta causa: la Chiesa porta una buona notizia che si adatta alle circostanze di chi ascolta. Se si rivolge a prigionieri, il suo annuncio è liberazione; se a ciechi, allora è vista; se a poveri, è beatitudine per un regno che arriverà. La Chiesa è inclusiva, cerca il bene di tutti, non sopravvive solo nei contesti culturali favorevoli. Ma soprattutto sa che esiste una riserva escatologica, per cui non potrà mai dire di aver portato in modo definitivo il Regno di Dio sulla terra. Non sono molte le realtà che hanno una mission così grande…
  • Responsabilità: è un onore essere parte della Chiesa, perché le sue attività partecipano del Regno di Dio. Quindi, oltre a lavorare in ciò che è eterno, la Chiesa offre in cambio una comunità che accoglie e protegge chi si dedica a trasmettere la parola del Vangelo. Tra le promesse che il Signore fa a chi ha lasciato tutto non c’è infatti solo la vita eterna, ma anche il centuplo quaggiù. Per questo la logica è quella del pastore che dà la vita per le pecore e non del mercenario: non c’è spazio per mercenari nella Chiesa, perché in loro non c’è disponibilità alla rinuncia e alla croce [6].
  • Comunità: nella Chiesa si sta insieme in virtù della fiducia e non dell’efficienza. Chi la guida non ha la preoccupazione di dover essere performante ma di accogliere chi consegna sofferenze e dubbi. L’ideale cui tendere non è quello di essere il superiore di una congregazione dalla quale non se ne vada nessuno, ma infusori di fiducia sullo stile del Signore, che ha creduto nel modesto gruppo dei suoi discepoli.
  • Etica: i Vangeli non raccontano di un Gesù preoccupato di dire cosa sia giusto e cosa sbagliato (questione invece cara ai farisei). Questo atteggiamento libera la Chiesa dall’essere più preoccupata delle procedure che dell’annuncio del Vangelo. Sono le realtà pigre quelle che si dotano continuamente di normative: tutte fatte per poter giustificare il proprio operato e non essere colti in fallo. La Chiesa – composta da guaritori feriti e peccatori riconciliati –    non ha da dimostrare a nessuno di essere senza macchia (compito principale della burocrazia).
  • Nemici: se è vero che «i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce», occorre osservarli con una certa curiosità. Tutto quello che ha valore, che è buono e virtuoso, va ammirato senza invidia. A condizione che il successo non sia ottenuto in modo sleale: chi riesce ad attirare le persone ci interroga sulla nostra significatività e sulla nostra testimonianza di vita.
  • Flessibilità: chi ha dipendenza dal gioco d’azzardo è portato a pensare che ciò che ha funzionato una volta continuerà a farlo. Chi ha una mentalità finita, infatti, ritiene che un modello di successo replicherà il risultato a condizione di mantenerlo inalterato, e anche quando vede declinare gli esiti vi si aggrappa ancor più. L’innovazione, invece, è figlia della passione e l’eredità si conserva nel tempo solo nella misura in cui la si movimenta, come insegna la parabola dei talenti. Intestardirsi nel tenere in piedi ciò che sta crollando spesso porta alla rovina edifici, aziende, pastorale e persino relazioni. «Si sarebbe dovuti intervenire prima» si dice: poiché tuttavia non lo si è fatto, ora non si sa più come procedere. Ci vuole coraggio, sia quando le cose vanno bene sia (e più ancora) quando vanno male. E la Chiesa ha imparato dal Vangelo che possiede un serbatoio di coraggio chiamato speranza.

Alla Chiesa non interessa battere “avversari” presenti nella cultura o sul territorio; non opta per strategie che si basano su piani decisi nel passato che non si aprono al futuro (perché conosce la riserva escatologica); non si appoggia sulle strutture che ha generato perché sa che esse rispondono alle esigenze di un contesto ben definito. Si permette, ad esempio, di considerare i dogmi (e persino le Sacre Scritture) all’interno dell’ambiente in cui sono stati generati, evitando le assolutizzazioni tipiche del fondamentalismo. La Chiesa è infinita quanto alla mentalità e al contenuto: il Vangelo stesso – ossia il suo core business – la tutela dallo scadere negli estremismi di ogni altra realtà, perché ha sempre un carattere relativo e contingente. Alla Chiesa interessa che il Vangelo sia annunciato, nelle occasioni opportune e propizie come in quelle inopportune e sfavorevoli. E, come Gesù, purché la buona notizia sia annunciata, non si preoccupa se questo avvenga tramite i suoi o uno che non ha il distintivo di appartenenza. La Chiesa dà fastidio a molti perché non si appoggia sul passato ma si getta con fiducia in un futuro che non può che essere ignoto: chi punta sulle regoline, vuole sentirsi rassicurato e la sequela di uno che non ha un cuscino su cui posare il capo non dà nessuna rassicurazione. Invece il cristiano dalla mentalità infinita sa che Dio lo sorprenderà continuamente, si allena ad essere pronto allo sconvolgimento dei propri piani invece che a minimizzare ciò che potrebbe portargli incertezza [7]. È fortunata la Chiesa, preservata dalla rassicurazione del Signore secondo cui le porte degli inferi non prevarranno su di lei; ma potrebbe incorrere nella sventura di scadere in una mentalità finita. E allora sarebbe lei stessa a suicidarsi.

 

[1] J.P. Carse, Giochi finiti e infiniti. La vita come gioco e come possibilità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano

1986, p. 9.

[2] S. Sinek, Il gioco infinito, Vallardi, Milano 2019, pp. 19-20.

[3] Ibid., p. 219.

[4] La stessa pandemia può essere l’occasione in cui assumere una posizione che ha uno sguardo a lunga gittata. Cf l’intervista di S. Sinek, The Infinite Game with Dr. James Carse, https://www.youtube.com/watch?v=r6ME0_iXr4M consultato il 27 gennaio 2021.

[5] «Mentre un giocatore di un gioco infinito gioca per l’immortalità, il giocatore di un gioco infinito gioca come mortale. In un gioco infinito si sceglie di essere mortali in quanto si gioca sempre drammaticamente, ossia verso l’aperto, verso l’orizzonte, verso la sorpresa, dove non può esserci un copione prestabilito. È una sorta di gioco che richiede una completa vulnerabilità […]. La morte è una sconfitta in un gioco finito. Essa viene inflitta quando i propri confini cedono e si cade in balìa dell’avversario […]. Il gioco finito per la vita è serio; il gioco infinito della vita è gioioso. Il gioco infinito risuona dappertutto con una sorta di riso. Non è un riso di scherno nei confronti di altri che sono giunti a una fine inattesa, dopo aver pensato di essere giunti da qualche parte. È un riso con altri con cui abbiamo scoperto che la fine cui pensavamo di giungere si è inaspettatamente aperta. Ridiamo non per ciò che è diventato sorprendentemente impossibile per altri, ma per ciò che è diventato sorprendentemente possibile con altri» (P. Carse, Giochi finiti e infiniti, cit., p. 33).

[6] Un’altra eco evangelica in questo passo: «Se dei giocatori di un gioco finito acquistano titoli da una vittoria nelle loro partite, dei giocatori di un gioco infinito dobbiamo dire che non hanno nient’altro che i loro nomi […]. Quando una persona è nota per il suo titolo, l’attenzione è concentrata su un passato completato, su un gioco già concluso, che non dev’essere perciò rigiocato […]. Quando una persona è nota solo per nome, l’attenzione di altri è su un futuro aperto. Noi semplicemente non possiamo sapere che cosa attenderci […]. I titoli sono teatrali. Ogni titolo comporta una forma cerimoniale specifica di saluto e di comportamento» (Ibid., pp. 34-36). «Un titolo è il riconoscimento, da parte di altri, che una persona ha vinto un particolare gioco. Io non posso conferire un titolo a me stesso. I titoli sono teatrali, richiedendo un pubblico che li conferisca e che li rispetti» (Ibid., p. 55). 

[7] Il vero credente, secondo Carse, è colui che approda non al credere ma alla meraviglia. Cf The Infinite Game with Dr. James Carse, cit.

 

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