Violenza, rappresentazioni interne e speranza
Editoriale
Tredimensioni XXII (2025) 122-125
Abbiamo segnalato che il fenomeno della violenza – così diffusa e ricorrente nei fatti di cronaca – è complesso e richiede di essere compreso alla luce di molteplici fattori.[1]
Vogliamo qui porre l’attenzione in particolare al tema delle rappresentazioni interne. Con rappresentazione intendiamo la costruzione simbolica che ciascuno si crea di ciò che gli sta davanti, e che permane nella propria interiorità anche quando l’oggetto esteriore è assente. La rappresentazione si forma e si sviluppa attraverso varie modalità e facoltà del soggetto (come l’esperienza sensoriale, l’immaginazione, la riflessione, la memoria…), e si compone sia di elementi cognitivi che affettivi. Ad es., se regalo un cane ad un bambino, questi reagirà innanzitutto a partire dalle sue rappresentazioni interne di cosa è un cane e cosa significa possederne uno. Per questo motivo, potrebbe averne paura o, al contrario, essere entusiasta prima ancora di iniziare ad interagire con il cane in carne e ossa che si troverà dinanzi. Nel tempo, l’esperienza diretta porterà il bambino a confermare alcune sue aspettative, ma anche a scoprire aspetti nuovi che lo invitano a rivedere la sua rappresentazione interna. Attraverso un processo in gran parte poco consapevole, egli imparerà che avere un cane significa anche impegnarsi a nutrirlo e a portarlo fuori, che il suo animale ringhia agli sconosciuti e può divenire pericoloso, che si è particolarmente affezionato a lui e viceversa, ecc. Se il cane è assente perché ricoverato dal veterinario, la sua rappresentazione rimane presente e attiva nell’interiorità del bambino, continuando a suscitare emozioni e pensieri, e permettendogli di proseguire la relazione su un piano maggiormente simbolico.
Diversi episodi di violenza raccontati dalla cronaca mostrano che l’aggressore ha agito in modo rapido e senza sentire nulla. Stupisce la povertà di connotazioni emotive che accompagnano gesti così forti, magari rivolti a persone con le quali era in essere una relazione da anni. La scarsità – o addirittura la mancanza – di rappresentazioni interne è allarmante. Il fenomeno non è nuovo: basti ricordare le morti causate dai ragazzi che lasciavano cadere sassi dal cavalcavia sull’autostrada, i quali al processo dissero di non aver avuto nessun motivo particolare per farlo. Certamente, però, con il passare degli anni tale fenomeno pare maggiormente diffuso.
Non possiamo ignorare i traumi infantili nella genesi dell’odio verso sé stessi e verso gli altri,[2] ma riteniamo interessanti – per una prassi educativa di ampio orizzonte sui comportamenti violenti e impulsivi – le considerazioni di Tito Baldini.[3] Egli sostiene che il modello consumistico ci abitua a sostituire un oggetto con un altro, in modo sempre più veloce ed efficiente. Questo va a modificare una modalità di base di funzionamento della psiche e quindi dell’intera personalità. In un percorso “normale”, infatti, quando il bambino sperimenta una frustrazione perché gli manca qualcosa di affettivamente importante (una persona, un oggetto, un servizio), egli impara a vivere l’attesa, elaborando una rappresentazione interna dell’oggetto amato che gli consente di nutrire il desiderio e la speranza di riaverlo, e al tempo stesso di sopportare la tensione e la fatica di non poterlo ottenere subito. La relazione con l’oggetto – talvolta presente, altre assente – diventa quindi lo spazio per elaborare rappresentazioni interne più profonde e mature, capaci di sostenere affettivamente il soggetto nel momento dell’assenza e di stimolare in lui dinamismi di speranza, desiderio, creatività.
La prassi e la mentalità consumistica sempre più pervasive, invece, propongono un’altra via per rispondere alle situazioni di frustrazione. Quando l’oggetto amato è assente, lo si può sostituire con un altro in modo rapido ed efficiente. Il soggetto si trova immediatamente appagato, e non deve fare la fatica di tollerare l’attesa, né quella di elaborare rappresentazioni interne capaci di conservare una relazione affettivamente importante anche nella distanza. Ma se questa modalità di sostituzione diviene preponderante, gli esiti possono essere drammatici: il soggetto si ritrova privo di rappresentazioni interne degli oggetti amati, così da sentirsi estremamente solo e angosciato quando essi sono assenti. Una frustrazione troppo alta da sopportare, che lo spinge a cercare immediatamente nuovi oggetti in sostituzione dei primi, altrimenti l’angoscia lo fa scoppiare.
Oltre al consumismo, vogliamo segnalare anche l’effetto di un uso costante, prolungato e invasivo di molti apparati digitali. Il passare velocemente da un’immagine ad un’altra, lo scrolling di video e notizie, l’essere continuamente in multitasking sono solo tre esempi di comportamenti comuni che rendono difficile al soggetto avere il tempo e la calma per entrare a contatto con la propria interiorità e per elaborare rappresentazioni interne adeguate di sé e dell’oggetto. La patina di indifferenza davanti ad immagini e notizie di ogni tipo è la legittima difesa della psiche inondata da un eccesso di stimoli, ma rischia di diventare un atteggiamento di superficialità e non coinvolgimento che si estende a tutti gli ambiti dell’esistenza.
In uno stile di vita sempre più veloce, consumistico e digitalizzato, la dimensione del tempo sembra scomparire, riducendo le possibilità del soggetto di apprendere ad elaborare un lutto, a coltivare la speranza e il desiderio per il futuro, così come una memoria grata e riconciliata. Non stupisce quindi che alcune reazioni, anche molto violente, assumano una forma simile al capriccio di un bambino che, avendo perso il proprio giocattolo/oggetto amato, grida e spacca tutto quello che ha vicino. Le numerose aggressioni al personale sanitario, e persino alle attrezzature dei pronto soccorso, mostrano questa dinamica.
Spesso si parla, giustamente, della solitudine che tanti giovani avvertono nella propria vita. Queste riflessioni inducono a pensare che essa non sia legata soltanto alla mancanza di figure accoglienti e disponibili verso di loro. Piuttosto sembrano carenti di adulti – sia come singoli che come gruppo sociale – capaci di insegnare a vivere l’attesa dentro un orizzonte di speranza. La tradizione cristiana è molto ricca a questo proposito: basti pensare alla metafora della vita come pellegrinaggio verso un compimento che sarà escatologico, alla speranza nell’attesa dell’incontro con Cristo capace di riconciliare tutte le cose, all’invocazione allo Spirito perché nell’interiorità sostenga il desiderio di bene e aiuti a ricomporre le ferite subite.[4] La domanda che sentiamo urgente è quanto questi temi, così centrali nella dottrina, trovino espressione adeguata nelle prassi e nei simboli che segnano la pedagogia della speranza e la vita delle comunità.[5] Esperienze positive non mancano, così come sono sempre più preziose le testimonianze di coloro che – seppur a costo di un vero e proprio lutto emotivo – hanno vissuto favorevolmente passaggi faticosi della vita. A patto di non ridurle a un video da scrollare.
Tredimensioni XXII (2025) 122-125
Abbiamo segnalato che il fenomeno della violenza – così diffusa e ricorrente nei fatti di cronaca – è complesso e richiede di essere compreso alla luce di molteplici fattori.[1]
Vogliamo qui porre l’attenzione in particolare al tema delle rappresentazioni interne. Con rappresentazione intendiamo la costruzione simbolica che ciascuno si crea di ciò che gli sta davanti, e che permane nella propria interiorità anche quando l’oggetto esteriore è assente. La rappresentazione si forma e si sviluppa attraverso varie modalità e facoltà del soggetto (come l’esperienza sensoriale, l’immaginazione, la riflessione, la memoria…), e si compone sia di elementi cognitivi che affettivi. Ad es., se regalo un cane ad un bambino, questi reagirà innanzitutto a partire dalle sue rappresentazioni interne di cosa è un cane e cosa significa possederne uno. Per questo motivo, potrebbe averne paura o, al contrario, essere entusiasta prima ancora di iniziare ad interagire con il cane in carne e ossa che si troverà dinanzi. Nel tempo, l’esperienza diretta porterà il bambino a confermare alcune sue aspettative, ma anche a scoprire aspetti nuovi che lo invitano a rivedere la sua rappresentazione interna. Attraverso un processo in gran parte poco consapevole, egli imparerà che avere un cane significa anche impegnarsi a nutrirlo e a portarlo fuori, che il suo animale ringhia agli sconosciuti e può divenire pericoloso, che si è particolarmente affezionato a lui e viceversa, ecc. Se il cane è assente perché ricoverato dal veterinario, la sua rappresentazione rimane presente e attiva nell’interiorità del bambino, continuando a suscitare emozioni e pensieri, e permettendogli di proseguire la relazione su un piano maggiormente simbolico.
Diversi episodi di violenza raccontati dalla cronaca mostrano che l’aggressore ha agito in modo rapido e senza sentire nulla. Stupisce la povertà di connotazioni emotive che accompagnano gesti così forti, magari rivolti a persone con le quali era in essere una relazione da anni. La scarsità – o addirittura la mancanza – di rappresentazioni interne è allarmante. Il fenomeno non è nuovo: basti ricordare le morti causate dai ragazzi che lasciavano cadere sassi dal cavalcavia sull’autostrada, i quali al processo dissero di non aver avuto nessun motivo particolare per farlo. Certamente, però, con il passare degli anni tale fenomeno pare maggiormente diffuso.
Non possiamo ignorare i traumi infantili nella genesi dell’odio verso sé stessi e verso gli altri,[2] ma riteniamo interessanti – per una prassi educativa di ampio orizzonte sui comportamenti violenti e impulsivi – le considerazioni di Tito Baldini.[3] Egli sostiene che il modello consumistico ci abitua a sostituire un oggetto con un altro, in modo sempre più veloce ed efficiente. Questo va a modificare una modalità di base di funzionamento della psiche e quindi dell’intera personalità. In un percorso “normale”, infatti, quando il bambino sperimenta una frustrazione perché gli manca qualcosa di affettivamente importante (una persona, un oggetto, un servizio), egli impara a vivere l’attesa, elaborando una rappresentazione interna dell’oggetto amato che gli consente di nutrire il desiderio e la speranza di riaverlo, e al tempo stesso di sopportare la tensione e la fatica di non poterlo ottenere subito. La relazione con l’oggetto – talvolta presente, altre assente – diventa quindi lo spazio per elaborare rappresentazioni interne più profonde e mature, capaci di sostenere affettivamente il soggetto nel momento dell’assenza e di stimolare in lui dinamismi di speranza, desiderio, creatività.
La prassi e la mentalità consumistica sempre più pervasive, invece, propongono un’altra via per rispondere alle situazioni di frustrazione. Quando l’oggetto amato è assente, lo si può sostituire con un altro in modo rapido ed efficiente. Il soggetto si trova immediatamente appagato, e non deve fare la fatica di tollerare l’attesa, né quella di elaborare rappresentazioni interne capaci di conservare una relazione affettivamente importante anche nella distanza. Ma se questa modalità di sostituzione diviene preponderante, gli esiti possono essere drammatici: il soggetto si ritrova privo di rappresentazioni interne degli oggetti amati, così da sentirsi estremamente solo e angosciato quando essi sono assenti. Una frustrazione troppo alta da sopportare, che lo spinge a cercare immediatamente nuovi oggetti in sostituzione dei primi, altrimenti l’angoscia lo fa scoppiare.
Oltre al consumismo, vogliamo segnalare anche l’effetto di un uso costante, prolungato e invasivo di molti apparati digitali. Il passare velocemente da un’immagine ad un’altra, lo scrolling di video e notizie, l’essere continuamente in multitasking sono solo tre esempi di comportamenti comuni che rendono difficile al soggetto avere il tempo e la calma per entrare a contatto con la propria interiorità e per elaborare rappresentazioni interne adeguate di sé e dell’oggetto. La patina di indifferenza davanti ad immagini e notizie di ogni tipo è la legittima difesa della psiche inondata da un eccesso di stimoli, ma rischia di diventare un atteggiamento di superficialità e non coinvolgimento che si estende a tutti gli ambiti dell’esistenza.
In uno stile di vita sempre più veloce, consumistico e digitalizzato, la dimensione del tempo sembra scomparire, riducendo le possibilità del soggetto di apprendere ad elaborare un lutto, a coltivare la speranza e il desiderio per il futuro, così come una memoria grata e riconciliata. Non stupisce quindi che alcune reazioni, anche molto violente, assumano una forma simile al capriccio di un bambino che, avendo perso il proprio giocattolo/oggetto amato, grida e spacca tutto quello che ha vicino. Le numerose aggressioni al personale sanitario, e persino alle attrezzature dei pronto soccorso, mostrano questa dinamica.
Spesso si parla, giustamente, della solitudine che tanti giovani avvertono nella propria vita. Queste riflessioni inducono a pensare che essa non sia legata soltanto alla mancanza di figure accoglienti e disponibili verso di loro. Piuttosto sembrano carenti di adulti – sia come singoli che come gruppo sociale – capaci di insegnare a vivere l’attesa dentro un orizzonte di speranza. La tradizione cristiana è molto ricca a questo proposito: basti pensare alla metafora della vita come pellegrinaggio verso un compimento che sarà escatologico, alla speranza nell’attesa dell’incontro con Cristo capace di riconciliare tutte le cose, all’invocazione allo Spirito perché nell’interiorità sostenga il desiderio di bene e aiuti a ricomporre le ferite subite.[4] La domanda che sentiamo urgente è quanto questi temi, così centrali nella dottrina, trovino espressione adeguata nelle prassi e nei simboli che segnano la pedagogia della speranza e la vita delle comunità.[5] Esperienze positive non mancano, così come sono sempre più preziose le testimonianze di coloro che – seppur a costo di un vero e proprio lutto emotivo – hanno vissuto favorevolmente passaggi faticosi della vita. A patto di non ridurle a un video da scrollare.
[2] Cf M. Puricelli, Traumi infantili e genesi dell’odio verso sé stessi e gli altri, in «Tredimensioni», 12 (2015), pp. 249-260.
[3] Cf T. Baldini, Il tramonto di Eros. Criticità dell’inconscio nei tempi moderni e ruolo della psicoanalisi, 2 luglio 2024, https://www.psicoanalisiesociale.it.
[4] Cf Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, San Pietro 30 novembre 2007, 32-48 (“Luoghi” di apprendimento e di esercizio della speranza), http://www.vatican.va.
[5] Cf Bell Hooks, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi editore, Milano 2022; P. Freire, Pedagogia della speranza, edizioni Gruppo Abele, Torino 2014.
Aggiornamenti 3D





25/04/25 - Esorcismo di un indemoniato o guarigione di un epilettico? - 1/2023
05/04/25 - Il discernimento per la vita cristiana - 1/2023
25/03/25 - Passi per giungere a una decisione comune - 1/2023
10/03/25 - La crisi del prete come opportunità/2 - 1/2023
25/02/25 - Francesca esce dal gruppo - 1/2025
24/02/25 - Violenza - Editoriale 1/2025
20/02/25 - "Rivista di Pastorale Liturgica. Liturgia e psicologia" - 2/2023
10/02/25 - "Coinvolgersi. Teologia e psicologia delle relazioni pastorali difficili" - 1/2023
10/02/25 - Aggiornamento traduzioni articoli 3D - 2/2005
25/01/25 - "L'abuso spirituale. Riconoscerlo per prevenirlo" - 3/2023
10/01/25 - Fenomenologia dell'amore/2 - 1/2023