L'accompagnamento spirituale: una forma di «comunione al Vangelo»


Roberto Vignolo
Tredimensioni 2(2005)1, 12-26
 


Definendo l'accompagnamento spirituale come «una forma di comunione al vangelo», mi ispiro a Fil 1,5, la cui traduzione CEI – «a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del vangelo» – suona un po' efficientistica, e quindi restrittiva, dal momento che comunione è ben più intenso e completo di una semplice cooperazione: qui non si tratta di condividere iniziative, bensì di una partecipazione a quell'unico bene salvifico per tutti che è appunto il vangelo (naturalmente con tutte le ricadute pratiche anche in termini di iniziativa). In questa sua lettera in assoluto più simpatica, carica d'intensa gioia all’interno di un’esperienza di prigionia (quella ai Filippesi appartiene a pieno titolo al genere «lettere dal carcere»), Paolo ringrazia il Signore perché la comunità di Filippi (una delle poche con cui non si è scontrato!) ha fin dall’inizio della sua predicazione interpretato nel modo più felice quella situazione di fede nel vangelo che tutti accomuna su di un piano di parità: l’apostolo evangelizzatore come pure la comunità da lui fondata, in quanto l'una e l'altro credenti e aderenti al vangelo, legati quindi da un medesimo vincolo cristologico, pneumatico, ecclesiale. Sia l'uno che l'altra sono coinvolti entro questa koinonia eis to euanghelion, che è la piena condivisione dell'intero bene salvifico assicurato dal vangelo di Gesù, morto e risorto per tutti, e dallo Spirito di testimonianza e di comunione; un bene da intendersi non solo riferito alla sua sostanza più originaria, ma anche concretizzato nelle sue implicanze in ogni rapporto, compresa la condivisione di beni materiali di sussistenza. Non per niente i Filippesi sono l’unica comunità da cui Paolo (notoriamente gelosissimo della sua autonomia economica, che lo spinge a scostarsi dal modello di Gesù in nome della gratuità del vangelo), accetta di ricevere un sostegno concreto (Fil 4) con la naturalezza di chi può contare su di una relazione inequivocabile, perfettamente esente da ambiguità, proprio perché anche questa situazione anomala per Paolo, fa parte integrante e viva della koinonia eis to euanghelion che lo lega ai filippesi. Conviene gerarchizzare il nostro tema sotto questo più ampio ombrello, perché l’accompagnamento spirituale va inteso come una forma intrinseca di questa comunione al vangelo, qualcosa quindi con un suo profilo specifico ma non indipendente. Sbaglieremmo a farne un’attività isolata, troppo specifica, non foss'altro perché ghettizzeremmo tanto la schiera dei nostri «sorvegliati speciali», quanto anche noi, che ce ne facciamo scrupoloso carico talvolta a rischio di diventare asfittici. Sempre per stare con un’immagine paolina, accompagnare è fattore coadiuvante della «corsa della parola di Dio» (2Tes 3,1). Biblicamente parlando, non trovo fondazione migliore per qualificare questo tipo di servizio. Entro tale orizzonte, dell’accompagnamento evidenzio tre aspetti: il contesto culturale odierno, il significato della domanda di essere accompagnati, e il tipo di relazione fra accompagnato e accompagnatore.


L’attuale temperie

È accettabile definire quella odierna una cultura della gratificazione istantanea, ovvero delle emozioni frammentate Ci aiuta un’immagine, rammentando come una volta, per parlare del tempo, fosse d'uso corrente la metafora del grande fiume che, in piena o in secca, porta tutto, ora impetuosamente, ora stancamente. Era la percezione del tempo come continuità, oggi mutata, dal momento che il tempo è divenuto per noi come un insieme di pozzanghere, al massimo di piscine, dove si entra e si esce di continuo. L'unica continuità e costante delle diverse esperienze sta nella ripetuta, e talvolta ossessiva/compulsiva frammentazione delle emozioni sbriciolate, possibilmente ad alta intensità, per cui ecco lo slogan sociopolitico sessantottino «vogliamo tutto subito» scadere oggi al più piatto e individualistico «vado al massimo». Quella cultura di rivendicazione sociopolitica radicale che progettava una sorta di utopia diventa oggi pratica dell’eccesso, dello sballo, dell'istante emozionante momentaneo e perfettamente ritagliato su se stesso, senza capo né coda. Con un'altra felice immagine, avviene un po' come per gli orologi digitali, sul cui display appare di volta in volta il diverso numero di secondo, minuto e ora, che, mentre appare, elimina i numeri precedenti, per cui non abbiamo più l’idea di un istante entro un flusso durevole, con un prima e un dopo, ma la percezione di istanti succedentisi, in alternativa sovrapposizione più che in continuità. Il lettore che per caso lavorasse proprio in questo ramo non si allarmi: non stiamo lanciando una crociata contro gli orologi digitali, ma vogliamo non appiattire la percezione della vita al modello del display, che pure riflette qualcosa della nostra più comune sensibilità e percezione del tempo.


La sfida delle emozioni

Questa cultura dell’emozione frammentata rivela molta fragilità, ma chiede altrettanta valutazione attenta. Non bisogna demonizzare a priori o sottovalutare la potenza dell’emozione, che è la faccia più immediatamente reattiva dei sentimenti, il lato ancor grezzo e non troppo elaborato degli affetti. Nella vita di fede questo profilo emozionale era stato in passato relegato a oggetto di devozione personale, mentre la teologia apologetica e dogmatica andavano per loro vie teoriche molto rarefatte, lasciando che la dimensione affettiva della fede venisse soddisfatta dalla devozione (una scissione denunciata e studiata, che si cerca di ricuperare). Per quanto possibile, bisogna ricondurre il profilo accentuatamente emozionale della fede nell'alveo di un più consistente sentire, in quella dimensione della fede oggi riproposta sotto il titolo di affectus fidei,espressione che potremmo tradurre «l'attaccamento del credente al suo Signore», in corrispondenza alla sua energica potenza di «attrazione». Riproposta da una cultura e società dove il sacro dimostra di non essersi affatto eclissato (semmai ce n'è fin troppo e certamente confuso), l’emozione più vibrante può dare un'accettabile percezione del sacro stesso se fatta adeguatamente decantare e recuperata all’interno del discorso antropologico complessivo. L’emozione è l’interfaccia della vita. Non va vista, come insegnavano una certa filosofia e psicologia, come semplice interferenza e condizionamento imposto a quanto io sto per fare. Più saggiamente oggi viene interpretata in chiave psicologica come preparazione all’azione, o predisposizione (in linguaggio ermeneutico diremmo: fornisce una precomprensione all’azione, evidenziando il modo in cui comunque e sempre siamo emotivamente situati).


Nodi emotivi problematici

Questa cultura delle emozioni ha alcune note predominanti che prendono il nome di straniamento, risentimento, paura della morte. Straniamento, estraneità in primo luogo a noi stessi. La società multietnica ci veicola quotidianamente il disagio del confronto con lo straniero, un sentimento che, letto in profondità, insorge perché, di fronte allo straniero, entriamo a contatto più diretto (ancorché più spesso inconscio) con una parte ignota di noi che solo a fatica può essere portata a coscienza. Quella parte di noi, anche perturbante, che da sempre abbiamo nascosta dentro, ad un certo momento, messa di fronte a qualche presenza straniera (in senso lato), emerge e ci spiazza. Molte difficoltà e crisi vocazionali, talvolta repentine e sconcertanti, ne sono la manifestazione macroscopica: è la crisi di chi, a un certo momento del proprio cammino – magari già scandito da decisioni e orientamenti importanti e definitivi – scopre aspetti di sé insufficientemente esplorati e investiti nel progetto precedentemente assunto. Questo fenomeno non riguarda semplicemente problemi vocazionali che avrebbero potuto/dovuto essere affrontati effettivamente e diversamente (dall'interessato e da chi l'accompagnava). Più radicalmente caratterizza la situazione abituale del nostro tempo, che Julia Kristeva, essa stessa straniera (bulgara trapiantata in Francia), descrive con tocchi di particolare pregnanza alla luce della sua esperienza in un paese da molti decenni prima di noi alle prese con il fenomeno dell’immigrazione La sua tesi è che lo straniero installato tra noi, è in realtà la faccia nascosta della nostra identità ancora ignota, rispetto alla quale oggi siamo molto più messi alla prova di un tempo. Con questo fattore nascosto deve fare i conti anche l'accompagnamento spirituale. Un ulteriore aspetto che colora intensamente emozioni e sentimenti odierni è il risentimento, quella «memoria infetta» (E. Morin) destinata a inquinare la falda più profonda della mia libertà e coscienza, ferita fino all'indisponibilità più netta a qualunque coinvolgimento autentico con l'altro. Quanto il risentimento sia dilagante nelle relazioni internazionali come in quelle parentali e familiari, sta sotto gli occhi di tutti. Infine, il grande tema rimosso della cultura delle emozioni: la paura della morte. Il problema della cultura attuale non è tanto – come voleva Freud – il disagio indotto dalla repressione sessuale, ma il tentativo di darsi una sopravvivenza, scongiurando e ritardando l'imminenza della morte, ed esorcizzandone il timore. Accettare la propria condizione mortale è un problema di oggi. La stessa pastorale vocazionale è spessissimo venata dalla paura della morte nel senso meno edificante e più rimosso immaginabile. Quella mancanza di vocazioni che mobilita le energie e i crucci di molti pastori con serietà e profusione di tempo, avrebbe bisogno di essere contemplata non proiettivamente, ma con la libertà dalla paura di morire noi stessi nel momento in cui vediamo morire il seminario, il ministero, il noviziato «come l’ho fatto io», la vocazione «come l’ho vissuta e intesa io», quel modello di Chiesa che proiettiamo come eterno e che invece è soltanto il nostro, terribilmente datato per quanto valido a suo tempo. Modello che fu magari strabenedetto dal Signore, ma solo per un certo frangente della storia della sua Chiesa. A questo riguardo varrebbe la pena riscoprire la qualità di fiducia dell’essere generati da una Parola incorruttibile che garantisce vita eterna a chi le presta ascolto (Gv 5; 1Pt 1,22-25). Quella è veramente incorruttibile, il resto no.


Recupero della categoria di fraternità

All'attuale temperie, qui disegnata in termini un po’ grezzi e parziali, ma comunque riguardanti nodi problematici effettivi, aggiungerei una carenza più specificamente ecclesiale e rilevante per l'accompagnamento spirituale. Essa coinvolge una relazione molto delicata, che prevede una grande confidenza, un ambito dove si respira fiducia, riconducibile a un aspetto della vita ecclesiale a tutt'oggi assente e cioè quello della fraternità. Si è molto parlato nel postconcilio di chiesa a diversi livelli, ma su quest’aspetto più basilare del tessuto ecclesiale, costituito dalla fraternità, non si è ancora meditato a fondo (sono sorte esperienze, ma manca una riflessione in merito). Parlo non di paternità, o di maternità spirituale (oggi giustamente riscoperte), ma di fraternità Circa la sua rilevanza, basta una lettura attenta dell'epistolario paolino, dove più raramente l'apostolo si presenta come padre, addirittura anche come madre (1Tes 2; 1Cor 4), mente più normalmente interpella i suoi destinatari chiamandoli «fratelli». Nel nostro ambito ecclesiale questa dimensione non trova un effettivo riscontro. Ma la relazione ecclesiale di base invocata dall'accompagnamento spirituale è in primo luogo il riconoscersi fratelli di colui che non si è vergognato di chiamarci tali (Eb 2). La fraternità è un altro, più largo, nome di «comunione al vangelo», quel nome che nelle nostre molto e troppo organizzate (oppure improvvisate) pastorali, viene oggi a mancare.


Accogliendo la domanda, educare al «sentire cristiano»

Quando qualcuno chiede aiuto per il proprio cammino di fede, potrà di volta in volta domandarci le cose più diverse. Ma sempre e indipendentemente da ogni sua più specifica e particolare questione, implicitamente ci domanda di sviluppare in sé quello che Paolo chiama ripetutamente il retto e meglio adeguato phronein, cioè «l'avere in noi gli stessi sentimenti di [meglio ancora: in] Cristo Gesù» (Fil 2,1ss.). Il riferimento originario di ogni accompagnamento è la formazione di un «cuore in ascolto». Quello di cui parlano i libri sapienziali, il dono richiesto da Salomone durante il suo breve soggiorno nel santuario di Gabaon, in risposta a Dio che in sogno gli diceva: «chiedimi ciò che io ti devo dare!» (1Re 3; cfr. Sal 2; 20-21; Is 7). La stessa domanda è di Paolo sulla via di Damasco (At 22,10), degli interlocutori di Giovanni Battista (Lc 3,10), di Gesù stesso (Lc 10,25; 18,18), degli abitanti di Gerusalemme interlocutori di Pietro all’indomani della resurrezione: (At 2,37). La domanda circa la propria salvezza, in ordine ad avere una parola illuminante («Che cosa devo/dobbiamo fare?», «Abba, dimmi una parola, perché io sia salvo!») è una struttura ricorrente nell'esperienza spirituale tracciata dai Padri del Deserto. Al centro dell’accompagnamento è questa domanda che la persona avanza nel proprio profondo e che la coinvolge come interpellata da Dio, quindi in bisogno di prestare autenticamente quell'ascolto in cui, evidentemente, si dimostra bene o male già impegnata. In ultima analisi. Questa stessa domanda è già una piccola risposta in abbozzo, proprio perché nasce da un’esistenza toccata dalla Parola. Un cuore in ascolto Accompagnare spiritualmente significa ascoltare Dio che ci parla attraverso l’interrogativo avanzato dalle persone, e quindi significa aiutare a rispondere a questa loro domanda. È fare, in contesto colloquiale, un discernimento «ragionevole», nel senso patristico di «secondo il Logos», cioè secondo la ragionevolezza della sequela Christi acclimatata ad una relazione fraterna, ovvero pneumatica. La forma originaria di questa domanda è un’invocazione teologale che cerca una presa e una chiarificazione colloquiale. L’accompagnamento spirituale è il saggio investimento e incremento che decanta questa domanda, senza cedere alla fretta di risposte troppo precipitose. E questo non per indulgere al vezzo del problematicismo inconcludente, ma per segnalare l’orizzonte entro il quale esercitare il colloquio. Ciò è quanto i Padri del Deserto chiamano «avere un cuore», cioè uno spirito interrogante, che si lascia interpellare. «Custodisci il tuo cuore, perché di qui è la fonte della vita» (Pr 4). Non qualunque cuore, ma quello custodito, che si mantiene in quell'ascolto, di cui la domanda chiede formulazione declinata ragionevolmente e colloquialmente. Dobbiamo aiutare le persone a praticare l'invito di Origene: «Scava il tuo pozzo!», tenere in cuore e confrontarsi abitualmente con la Parola che interpella, il tutto in vista del discernimento. Illuminante l’espressione dei Padri del deserto: «Quello che il tuo cuore desidera secondo Dio, fallo!». Avere un cuore significa che la volontà di Dio è quello che vogliamo noi nella misura in cui il nostro cuore vuole secondo Dio. In base a questi principi Ignazio di Loyola a chi doveva scegliere tra alternative cristianamente comunque ottime, diceva: resta davanti al Signore, finché sia placato in te ogni tumulto e dilemma; a quel momento, quando vorrai qualche cosa, dopo aver sostato di fronte a lui in pacifica disponibilità, quello che vuoi tu sarà quel che vuole il Signore. Accompagnare spiritualmente significa contribuire a istituire e custodire una siffatta apertura al confronto abituale della Parola di Dio. Oltre le affinità selettive L’accompagnamento non può quindi degenerare nel culto di reciproche affinità elettive, dove il criterio finisce per coincidere (o tende a farlo) con l'accoglienza esclusiva dei nostri più diretti affini. Il principio platonico di connaturalità per cui «il simile conosce il simile», contiene non poca verità. Ma ben più radicale e inglobante è il principio cristologico, consistente nel Figlio che, pur possedendo la forma Dei interpreta questo suo status filiale divino assumendo la forma servi, in perfetta assimilazione agli uomini (Fil 2,5ss.), il tutto in vista del nostro «far conoscenza della sua grazia», del nostro «diventare ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9), ovvero della nostra filiazione in lui (Gal 4; Rm 8). Comprendere e accompagnare non vuol dire impegnarsi a capirsi l'un l'altro, in pronta reciproca intesa (anche se potrebbe talvolta risultare auspicabile). Vuol dire piuttosto che tutti e due ci intendiamo sulla cosa e ci relazioniamo a partire da e in vista di essa, senza cincischiare e coccolarsi in compiaciuta risonanza reciproca e diretta affinità. La sintonia è in riferimento alla cosa che ad entrambi maggiormente preme, motivata dalla comunione e conoscenza di Cristo nello Spirito. L'intenzionalità più autentica, dell’accompagnato e accompagnatore, è ultimamente capax Dei, per divina disposizione in grado nientemeno che di ospitare la Trinità. L’intenzionalità è ospitalità. Pensare è sempre ospitare qualcosa, qualcuno in noi. Si tratta di fare spazio ad un progetto, se non perfettamente coincidente, quantomeno compatibile con l’inabitazione di Dio trino secondo la promessa di Gesù (Gv 15). E' questo genere di intenzionalità che deve poter condividersi nell'accompagnamento spirituale. L’accompagnamento spirituale non è un mero additivo rispetto a situazioni già precostituite, bensì si gioca sempre su un processo di decostruzione e di riconversione delle persone coinvolte. E per decostruzione va intesa non soltanto quella del proprio, moralmente parlando, "uomo vecchio", ma anche del proprio uomo ingenuo, innamorato di un’immagine di sé ancora troppo infantile, autoprotetta e narcisisticamente blindata. Bisognerà lasciarla/farla cadere, per far emergere, anche attraverso il sincero riconoscimento delle proprie fragilità e ambiguità (perlopiù un risvolto intrinseco delle nostre migliori doti), l’immagine più autentica che ri-converte l'intero nostro patrimonio, riplasmandolo cristologicamente e pneumaticamente.


Oltre la relazione impersonale e intimistica

Per favorire un «cuore in ascolto» sarà decisamente privilegiabile che l’accompagnatore stabilisca un tipo di relazione non impersonale, ma nemmeno autoreferenziale. Nel recente passato si avvertiva: «attenzione a non legarsi troppo, attenzione al transfert!». In effetti, bisogna davvero vigilare, perché tante volte le persone insieme a (talvolta al posto di) un aiuto spirituale, ci chiedono di tutto e di più, dato che in questa richiesta investono tutta una vita di relazione penalizzata. Ma nel mondo delle relazioni vive, l’attuarsi del transfert è inevitabile. Non averne, significherebbe essere dei narcisisti, che pretendono di non assomigliare a nessuno, né di condividere alcunché (in sede psicoanalitica si dice infatti che il difetto del narcisista sta nel non avere transfert). Lo stesso dicasi per il controtransfert dell’accompagnatore che si lega affettivamente a chi accompagna con un tipo di legame che dice più o meno così: «tu dipendi dal mio aiuto, che mi hai chiesto; sicché, a mia volta, io dipendo dalla tua dipendenza dal mio aiuto». Le relazioni impegnative non possono fare a meno di legare. Si tratta di sapere che cosa effettivamente si cerca e il prezzo da pagare, così da non fare dell’accompagnamento un’occasione per imporre sulle persone le proprie energie affettive in termini indifferenziati, addirittura dilaganti, alla fine risultando di fatto invasivi, possessivi e regressivi, piuttosto che effettivamente promozionali di una vera crescita spirituale.


Per essere persone liberanti

Insieme ad una buona vigilanza sui noi stessi, è importante tenere come punto di riferimento dell'accompagnamento il nucleo oggettivo della fede, cioè la sua dimensione cristologica e teologica, riguadagnata attraverso quell'ordinario e oggettivo tessuto di grazia istituito dalla Scrittura e dai sacramenti, dal rapporto con la comunità e con i fratelli («guarda di giocarti la vita con il Signore, tenendo presente come Egli parli preferibilmente attraverso questi riferimenti: il che vale ovviamente non solo per te, ma anche per me e per il cammino da noi condiviso»). Nel momento in cui c’è questa referenzialità alla buona, comune sostanza della fede, ecco allora l’accompagnamento diventare esperienza mai soltanto e anzitutto autoreferenziale o intimistica, ma ritmarsi armonicamente su di un bene da entrambi, anzi da tutti universalmente condiviso. Questa referenzialità oggettiva è di ogni buon testimone (e di ogni destinatario di testimonianza), che proprio in quanto tale non può fare a meno di dire «io ho visto, ho udito!», ma subordinandosi al patrimonio e al sensorio comune della fede. In questo senso va riconosciuto un pacifico primato alla Scrittura, quale codice della vita spirituale e pastorale, in quanto il canone scritturistico, sempre e ovunque, si offre a noi come uno specchio della vita ordinaria, e quindi pastorale della chiesa.   “Anche se tu non la leggi, tu sei nella Bibbia”. A chi chiede accompagnamento occorre restituire quella gioia veramente impagabile di sapersi riconoscere e specchiare nel mondo dischiuso dalla pagina biblica, ed esclamare, possibilmente ogni giorno: «Io sono proprio qui!». Con il suo modo di relazionarsi, a chi gli chiede un cammino l’accompagnatore dà la soddisfazione di leggere la Bibbia ritrovandosi situato in questo gigantesco album di famiglia da cui nessuno manca. In quello, accompagnato e accompagnatore, andranno ogni giorno di nuovo a caccia del proprio luogo topico


Diversi modelli di accompagnamento

Connessi al tema della relazione di accompagnamento, conviene concludere ricordando alcuni modelli, ricavabili dall'ambito della letteratura sapienziale, per definizione magnifico repertorio in materia.   ¨     Modello classico. È il più antico e tradizionale, reperibile soprattutto in Pr 10-31. Il maestro per un verso mostra al discepolo le evidenze intrinseche alle situazioni della vita; e per l'altro verso, invece, lo ammonisce a plasmarsi e a plasmarle con il comportamento improntato a scelte fondate, ragionate. Questo tipo di accompagnamento obbedisce alle due forme illocutorie/perlocutorie fondamentali di ogni linguaggio, i due polmoni di ogni comunicazione, interpretazione, trasmissione, riconducibili al cosiddetto proverbio di constatazione (osservazione) e proverbio di ammonimento (prescrizione). Diciamo le cose come stanno, le osserviamo parlando all'indicativo; mentre con l'imperativo sollecitiamo direttamente gli atteggiamenti adeguati da assumere, ritenuti indispensabili. Questo modello prevede un rapporto abbastanza assestato tra i due dialoganti, una gerarchia pacificamente riconosciuta tra accompagnatore e accompagnato, come pure che tra loro si intendano tranquillamente sulle cose. Le evidenze possono essere agevolmente mostrate, e i comportamenti sollecitati perché sufficientemente chiari e condivisibili da chi propone e chi riceve. Questa è la sapienza più antica, che presuppone un ordine sociale e culturale stabile, e che su questa base nella sua proposizione procede piuttosto sobriamente, perfino asciutta, senza indulgere troppo né condiscendere verso l'accompagnato, al cui carico spetta lo sforzo di adeguarsi.   ¨     Modello sapienziale, più recente nel Libro dei Proverbi, contenuto nel lungo prologo di Pr 1-9 (la parte post-esilica e più recente del libro). Presenta una relazione di accompagnamento dove le cose non stano più colme nel modello precedente, dal momento che cerca una comunicativa assai più condiscendente verso l'accompagnato. Siamo infatti in un tempo e in un ambiente più difficili, dove chi riceve istruzione e ammonizione non vede le cose più o meno con gli stessi occhi di chi le propone, ma porta in sé aspetti assai più problematici, perfino motivi di risentimento generazionale, che impediscono un rapporto prontamente agevole di comunione alla verità. C'è evidentemente un problema previo da risolvere, un fossato da colmare, un ponte da gettare. Ecco allora questo modello, che chiamerei «condiscendente», dove il maestro di sapienza nei confronto del discepolo si dimostra affettivamente molto pronunciato, interpellandolo continuamente «figlio mio, figlio mio…» (14 volte in Pr 1-9), nonché persuasivamente, assai più rispettoso della sua libertà, sollecitata non più con una prescrizione diretta, bensì con l'appello ad una scelta di libertà («se custodirai le mie parole..., se..., se...» (emblematico a riguardo lo splendido poema didattico di Pr 2). Interessante constatare in Pr 1-9 la presenza di problematiche molto simili alle nostre attuali giovanili (la tentazione di una vita violenta, al seguito di bande di malaffare, e sessualmente trasgressiva), rispetto alle quali si fa particolarmente intenso lo sforzo di caricare la relazione maestro-discepolo con un’affettività molto positiva e con un discorso rispettoso e persuasivo, proprio in ordine a superare un fossato tra le generazioni. Lasciando che sia la Sapienza in persona a dire le cose un po’ più brutalmente (capp. 1; 8 e 9), il maestro di sapienza parla in modo molto più dolce e mite, intervenendo con tono, affettivamente e persuasivamente parlando, molto accattivante. Il tutto in una prospettiva assai ottimistica e con obbiettivi di alto profilo: accompagnato dal genitore/maestro, il discepolo potrà instaurare una comunione perfino sponsale, erotico-mistica con la Sapienza stessa (capp. 2; 4), che lo invita al suo banchetto (Pr 9), e a godere di una custodia speciale da parte del Signore.   ¨     Modello di Qoh. Il libro di Qohelet (che sembra proprio rispondere dialetticamente in particolare a Pr 1-9) dispiega un tipo di accompagnamento completamente diverso, tanto da costituire un terzo modello. Il rapporto è, affettivamente parlando, più sobrio, per cui Qohelet – distanziandosi dai troppo intensi affetti di Pr 1-9 – non dice «figlio mio» a nessuno, convinto com'è che, per diverse che siano le generazioni, esse sono accomunate dalla stessa tentazione di stoltezza e stupidità, dallo stesso genere di illusioni, dalla medesima condizione mortale, anche in quanto catalizzatrice di diffusa e analoga stupidità. Facendo conto su questo piano di tendenziale parità tra maestro e discepolo, Qoh si propone di smontare ogni pretesa e illusione di una sapienza troppo facilmente accessibile e perfetta. In particolare, lo fa autoironizzando sulle proprie abnormi pretese di essere l’unico vero grande re su Gerusalemme, l’unico al di sopra di tutti, che tenta di rimuovere il pensiero della morte e costruirsi un'immortalità con le sue stesse mani (Qoh 1-2). Ecco il sogno che dobbiamo senza pentimenti lasciar svanire, per assestarci su proporzioni di sapienza e umanità più limitate, più semplici, più vere. La morte, anzitutto, ma anche la gioia di vivere, il timore di Dio e una sapienza parziale, umilmente ordinaria, sono la piccola bussola capace di orientarci nel mare magnum della vita. «Ragioniamo in termini più semplici e onesti – ci dice Qoh – , per cui ecco che, raccontandoti lo svanire del mio sogno nel cassetto, può servirti come antidoto a non gonfiare troppo il tuo!». La tradizione sapienziale (qui parzialmente visitata, poiché resterebbe da parlare ancora di Siracide e Sapienza) ci propone dunque modelli diversi di accompagnamento: uno più oggettivo e rude, uno più caldo, un'altro infine più ironico, non privo di solidarietà ma meno interessato ad un rapporto personale diretto e più impegnato a condividere le grandi situazioni enigmatiche della vita a partire dalla più elementari certezze. Non sarà mai possibile bloccare il rapporto di accompagnamento all’interno di un unico modello, perché di volta in volta diverse sono le situazioni, le persone, gli itinerari, le condizioni, le stagioni; e da questo punto di vista sarà importante disporre d'un ventaglio di possibilità sufficientemente ampio e articolato.

Archivio 3D
2004  2005  2006  2007  2008 • 2009 • 2010 
2011  2012  2013 • 2014  2015 • 2016  2017 
2018 • 2019 • 2020  2021  2022  2023 • 2024