Il mondo bianco e distruttivo dell'anoressia


Lucia Mainardi
Tredimensioni 2(2005)2, 147-158



In questi ultimi anni il fenomeno dei disturbi dell’alimentazione si è talmente allargato da diventare epidemia sociale. Fino a trent’anni fa era considerato malattia rara. Nel 2003 il Piano Sanitario Nazionale indicava invece che in Italia dieci milioni di persone (soprattutto donne dai 10 ai 34 anni, quindi molte adolescenti) sono a rischio. Di conseguenza si sono moltiplicate le associazioni di aiuto e di ricerca con diverse pubblicazioni di libri, articoli, dossier e iniziative, non ultima quella di un medico di base di Torino che propone il volontariato in una mensa per i poveri come terapia per uscire dal tunnel dell’anoressia.

Domandiamoci: una ragazza rifiuta di mangiare fino al rischio di morire solo perché tormentata dall’ossessione di dimagrire in conformità a un modello imposto dalla cultura dell’effimero, o tale preoccupazione è la punta di un iceberg che nasconde un sommerso di dinamiche esplosive, inquietanti e drammatiche?


Avidità e invidia nascoste dal bisogno di controllo


Gabbard, nel suo noto manuale di psichiatria, riassumendo i contributi di diversi studiosi così scrive: «la preoccupazione riguardo al cibo e al peso è una manifestazione, relativamente tarda, emblematica di un disturbo più fondamentale del concetto di sé. La maggior parte dei pazienti con anoressia nervosa hanno la ferma convinzione di essere completamente impotenti e inefficaci. La malattia spesso si manifesta in “brave bambine” che hanno speso tutta la loro vita cercando di compiacere i genitori, e diventando improvvisamente testarde e negativiste durante l’adolescenza. Il corpo viene spesso esperito come separato dal Sé, come se appartenesse ai genitori. Queste pazienti mancano di qualunque senso di autonomia, al punto da non sentirsi nemmeno capaci di tenere sotto controllo le loro funzioni corporee, con un sottostante profondo sentimento di non valere nulla e trasformano la loro ansia e i loro problemi psicologici attraverso la manipolazione della quantità e della dimensione del cibo assunto».

Nel nucleo dell’anoressia c’é un’intensa avidità ma negata dall’anoressica stessa. Per lei, avere bisogni orali (di cibo, amore, attenzione...) è inaccettabile. Tenta perciò di gestirli tramite la proiezione, ossia trasferisce sui genitori quest’immagine di sé avida e richiedente, cosicchè sono loro –non lei- ad avere quei bisogni. Lei si illude di non avere il bisogno di mangiare, e non mangia. Loro –i genitori- diventano ossessionati che la figlia mangi, e in tal modo ai suoi occhi sono loro ad avere tali bisogni.

Inconsciamente, insieme all’avidità c’è anche l’invidia. Seguendo ancora Gabbard, l’anoressica invidia le cose buone possedute dalla madre (amore, compassione, nutrimento…). Ma riceverle in sé e farle proprie accrescerebbe l’invidia (sono ricevute, quindi non sue!). Allora rinuncia e lo fa con la fantasia inconscia di rovinare ciò che invidia, in maniera non dissimile da quanto, nella favola di Esopo, fa la volpe con l’uva. Diventa la donna che non desidera. Trasmette il seguente messaggio: «non vi è niente di buono che io possa desiderare, per cui rinuncerò semplicemente a tutti i miei desideri». Raggiunge, quindi, un alto controllo di sé. Questa rinuncia la rende oggetto dei desideri altrui e, sempre nella sua fantasia, l’oggetto della loro invidia e ammirazione, perché colpiti da tanta sua forza di autocontrollo. Tutto ciò lo vive tramite il cibo: il cibo simbolizza le qualità della madre che lei desidererebbe avere in sé; ma essere schiava della fame è preferibile a desiderare di possedere la figura materna.

In sintesi, l’anoressia rappresenterebbe un tentativo di essere unica e speciale, l’affermazione di un nascente Sé, un attacco ostile alla madre, una difesa dall’avidità e dal desiderio, una strategia per far sentire gli altri avidi e impotenti piuttosto che percepire se stessa in tal modo.


Gabbard aveva auspicato ulteriori indagini sulla comprensione psicodinamica e psicogenetica dell’anoressia.

Degni di nota sono i recenti studi della psicoterapeuta inglese Marylin Lawrence. Anche per lei, nell’anoressia resta centrale la diade madre – figlia, ma la sua spiegazione, più che alle difese proiettive ruota intorno alle difese maniacali contro penosi sentimenti depressivi. Al centro della psicodinamica individua il bisogno di controllo sulla realtà, il rifiuto di avere delle urgenze alle quali sottomettersi, e il rifiuto di riconoscere i genitori come coppia. Si tratta anche qui di una dinamica inconscia e con sfumature diverse. Così, ad esempio, mentre nell’anoressia le immagini parentali sono sentite come sospese, e congelate, nella bulimia vengono attaccate in maniera frenetica e intermittente. La natura e il grado degli attacchi micidiali determina la severità della malattia, come pure la capacità a beneficiare del trattamento psicoterapeutico.

In genere, la letteratura scientifica presenta casi dal notevole grado di patologia ai quali però possiamo qui ispirarci come modelli ingigantiti di alcuni passaggi presenti anche in forme anoressiche meno gravi. 

Un deserto sbiadito

 L’immagine, persino poetica, in realtà dipinge una drammatica situazione interiore dell’anoressica, fatta di attacchi subdoli e più o meno letali a se stessa e alla famiglia, attuati attraverso lo sforzo per controllare il proprio peso e il cibo.

Alcune ragazze parlano del loro stato mentale in termini di «biancore esteso», come se improvvisamente e pesantemente cadesse dell’abbondante neve e oscurasse il senso della differenziazione degli oggetti e si annullasse così la stessa vita. Paradossalmente questo stato mentale risulta gratificante e piacevole perché è come sentirsi grandiosamente soli con la percezione di saper sopravvivere in questo bianco deserto.

Per il meccanismo del transfert, anche lo psicoterapeuta, nella fantasia della paziente, è oggetto di tale trasformazione. Ad esempio, lei può affermare di apprezzare l’analista perché non ha qualità, come qualcosa di astratto, non ben definibile. L’analista risulta in tal modo inoffensivo, irreale, indifferenziato. Se lei lo percepisse come persona reale con tutte le sue qualità differenzianti, non sarebbe più capace di sopportarne la relazione, perché non avrebbe più la sensazione di avere tutto sotto controllo. Per accettarne la presenza nella propria vita, ha bisogno di azzerarne le qualità tipicamente umane e differenzianti. La medesima percezione può verificarsi anche nel sogno durante il quale mentre ha una relazione sessuale, improvvisamente tutto diventa bianco.

Il bianco è paradossalmente amato, anche quello del suo piatto vuoto.

Il bianco le evoca la visione fantastica di un mondo senza oggetti, vuoto, una situazione mentale dove anche i genitori, particolarmente come coppia, non esistono più. Ed è significativo che avverta tale biancore come puro, pulito, e quindi buono. Con questa immagine l’anoressica elimina una parte viva del suo Sé rappresentato dall’incontro sessuale di coppia. Nella sua mente annulla il bisogno, rifiuta la parte del Sé che può avere bisogno, la madre che nutre e che può andare incontro al bisogno e i genitori che le hanno dato la vita. Dentro a questa fantasia ella si vive con un senso di unicità sottile, fra oggetti informi, dal panorama vuoto, in una stanza bianca, in cui si illude di essere di gran lunga superiore alla madre, e all’analista che lei non prende seriamente in considerazione o di cui minimizza l’importanza. Questa situazione indifferenziata rinvia alla percezione di non sentirsi separata, l’essere nello stesso tempo con gli altri ma ancor più in stretto controllo dell’immagine che si è creata, un’immagine senza qualità umane.

L’insieme di grandiosità e negazione trapela anche da alcuni comportamenti rilevabili ad occhio nudo. L’anoressica non vive il suo stato come malattia ma come soluzione. Non sente quindi il bisogno di farsi aiutare e a chi glielo consiglia la sua pronta e immancabilmente risposta è: io non ho problemi, io non ho bisogno.

Una giovane laureata progettava di entrare in una comunità religiosa. La decisione fu rinviata perché le superiore, venute a conoscenza dei suoi problemi di alimentazione, erano in dubbio. Lei non capiva le loro perplessità. Continuò i suoi studi con una specializzazione all’estero e dopo la brillante conclusione si ripresentò di nuovo insistendo per entrare. Vista la sua perseveranza e ottima riuscita nello studio le superiore supposero che quei problemi di alimentazione fossero risolvibili o comunque non influenti. Una volta entrata, in breve tempo esplosero in tutta la loro veemenza. Tutti restarono esterrefatti e non capivano come mai una giovane così intelligente e con tali capacità non fosse in grado non solo di superare il problema ma nemmeno di ammetterlo, neanche di fronte all’evidenza più palese. Lasciò con amarezza la comunità e visse il tutto come incomprensione e ingiustizia.
Il problema anoressia intacca il livello delle relazioni. La ragazza riusciva brillantemente nello studio che non implicava necessariamente un coinvolgimento stretto ed emotivamente impegnativo. Anzi, l’attività poteva fungere da alibi per dimostrare, contrariamente a quanto pensavano familiari e conoscenti, che non c’erano problemi, e che i problematici, semmai, erano loro. Nei mesi all’estero non lasciò trapelare le sue ansie, e infatti nessuno se ne accorse: salvo i momenti di presenza obbligatori, se ne stava isolata con la scusa dello studio. Ma in comunità, un isolamento difensivo non può durare a lungo e quando lei cercò di giustificarlo dovette inventare degli stratagemmi talmente strani che fu impossibile continuare a mimetizzare il problema.


Legame con la madre non risolto

L’anoressia si associa a serie difficoltà relazionali. Per averne un’idea, ecco un altro esempio emblematico.

Una signora, nonostante la malattia riesce a sposarsi e avere un bambino. Dopo un ricovero all’ospedale cerca un aiuto psicologico, non per l’anoressia che l’aveva obbligata a quel ricovero ma per le sue ansie relative al figlio. Fin dall’inizio cerca di manipolare il terapeuta pretendendo di dettare le regole e conquistarlo con atteggiamenti confidenziali. Negli incontri con lui non parla mai del suo problema anoressia ma delle persone a lei vicine e preoccupate di lei. Si lamenta della relazione con il marito con il quale, dopo la nascita del figlio, non ha più intimità sessuali. Dell’ intesa con la madre parla in termini calorosi mentre del padre si limita a dire che fin dalla sua adolescenza è stato molto assente. Del marito, dice che dopo il matrimonio é diventato alquanto obeso, lo percepisce impotente e disgustoso come suo padre e non sopporta vederlo giocare affettuosamente con il figlio. In passato aveva già discusso con sua madre e sua sorella se lasciarlo o no. Infine, benchè dall’inizio avesse presentato un quadro idilliaco in merito alla madre, confida di averla sempre percepita in una relazione preferenziale con il fratello.
Come la maggioranza delle anoressiche questa donna non é stata capace di abbandonare il legame esclusivo con la madre. Non ha tollerato il passaggio da bambina attaccata al seno materno a membro –fra gli altri- di un sistema familiare differenziato in cui i genitori hanno relazioni con i figli ma anche fra loro due. Le fantasie inconsce prevalentemente distruttive sugli altri le servono per difendere se stessa dai sentimenti penosi di gelosia e invidia, cercando di restare nell’illusione di formare con la madre la coppia reale e centrale dove il padre é sentito un indesiderato intruso. Questa dinamica relazionale è tipica delle giovani che approdano all’anoressia e che va presa in seria considerazione.
Benchè questa signora si sia sposata e dunque abbia cercato l’esperienza di coppia, in lei prevale l’odio per le coppie: quella dei suoi genitori come pure la propria di donna sposata. Infatti l’ostilità verso il marito si esprimeva anche nel preparargli costantemente cibi ingrassanti.
Per l’anoressica la relazione madre – bambina e ancor più la relazione madre – figlia rimane la diade importante da cui non si è mossa. Significativo il fatto che al termine della terapia questa signora si sia presentata insieme al figlio di due anni; ulteriore conferma che non intendeva cambiare e crescere, bensì ristabilire il controllo del suo mondo interiore.

Le intuizioni dei due autori che ho citato all’inizio convergono con quelle di altri studiosi interessati alle difficoltà di elaborazione del complesso di Edipo ed è possibile che i disturbi dell’alimentazione rappresentino un caso speciale di illusione edipica.

Secondo la sintesi di Gabbard, le radici dell’anoressia vanno cercate nel terreno della relazione disturbata tra infante e genitori. Il disturbo si dà soprattutto quando la madre si prende cura del figlio in funzione dei propri bisogni piuttosto che di quelli della figlia (o almeno così da questa viene percepita). Quando un bambino non riceve risposte di conferma e di convalida ai suoi interrogativi non può sviluppare un sano senso di sé: si percepisce come un’estensione della madre e non come un centro di autonomia per suo diritto. La «scelta» dell’anoressia può essere allora un tentativo di affermazione di sé come soggetto unico e speciale con qualità straordinarie e così ottenere ammirazione e conferma.

Sentirsi unica ma anche competere (essere la più magra, cocciutaggine, determinatezza nel lavoro, massimo rendimento scolastico…) e compiacere (per far piacere -secondo lei- alla madre cerca di essere perfetta così da rassicurarsi che la madre non l’abbandonerà). Ma sono ruoli forzati che non producono identità ma un falso Sé. Nel corso degli anni cresce allora un risentimento, e la sindrome anoressica si sviluppa come ribellione totale nella quale si riafferma il vecchio Sé (quello «abusato» e «invaso») per lungo tempo rimasto sopito e non sviluppato.

Il mondo interno appare esternamente come invischiamento nella famiglia per la mancanza di confini generazionali e personali. Ossia ciascun membro della famiglia è invaso dall’altro, iper-coinvolto nella vita di ogni altro membro, a tal punto che nessuno esperisce un senso d’identità separata al di là della matrice familiare. Anche il corpo finisce per essere percepito come abitato da un cattivo introietto materno e il non mangiare diventa un tentativo di arrestare la crescita di questo oggetto ostile, intrusivo (ansia di invasione).

 
Proibito entrare

Perché colpisce particolarmente la donna?

Tutte le statistiche concordano nel rilevare che l’anoressia ha una preponderanza di gran lunga superiore nelle donne rispetto agli uomini. Le ragioni eziologiche appena addotte non sembrano, però, giustificarlo.

La Lawrence lo giustifica con l’ansia di intrusione. Suggerisce che in taluni vissuti femminili ci possa essere qualcosa di specifico che predispone all’ansia di intrusione (il che non dice che reali intrusioni o violenze dall’esterno siano effettivamente accadute). Analizzando il transfert verso l’analista lei ha notato che le donne anoressiche, da una parte, sviluppano profonde idee illusorie di volersi introdurre tra i genitori e riacquistare il loro posto speciale presso la madre non disturbate dalla presenza del padre, ma dall’altra parte hanno anche una pronta difesa contro la vicinanza.

È ampiamente attestata la correlazione fra abuso sessuale sui bambini e diverse forme di disturbi psicologici, ma non è altrettanto accertata la correlazione dell’abuso con i disordini dell’alimentazione. Sebbene l’abuso rappresenti un fattore che contribuisce al loro sorgere, di per sé non è sufficiente a innescarli. Infatti la maggior parte delle persone con disordini alimentari non registrano tali esperienze.

Sussiste comunque una similarità. Se anche non ha subito abusi reali, l’anoressica manifesta il terrore di possibili intrusioni e comunica l’impressione di essere stata oggetto d’intrusione. Da qui la sua resistenza a ricevere aiuto: ciò che per altri è una offerta di aiuto, per lei é intrusione. Supposto che si lasci convincere di consultare un terapeuta, in un primo momento fa nascere delle speranze ma purtroppo fin dal primo incontro lei esordisce con il dire che non c’è nulla da vedere, nulla di interessante o di preoccupante nella sua storia e così via. Eppure la sua magrezza evidenzia una situazione di estrema gravità. Se il terapeuta insiste, lei lo interpreta come un’indebita invasione. Chi l’aiuta non è chi l’aiuta ma chi pretende di entrare e la sua risposta è un netto rifiuto. Se da una parte questo fattore è centrale nella dinamica della paziente, dall’altra é l’impedimento centrale allo stabilirsi di una relazione, di un contatto con la paziente stessa, senza il quale il lavoro terapeutico è pressochè precluso o vanificato.

Quando una paziente anoressica apparisse genuinamente intenzionata a collaborare bisognerebbe dubitare della correttezza della diagnosi fatta.

 
Femminilità e ansia di intrusione

Se l’idea dell’intrusione non corrisponde ai fatti avvenuti, da dove deriva e come può essersi installata in modo così tenace?

Sembra esserci qualcosa connesso alla femminilità sia a livello biologico che psicologico che, in particolari condizioni, predispone alcune donne all’anoressia e soprattutto all’ansia di intrusione.

Già fin dal 1928 Melanie Klein parlava del complesso edipico. Quando il ragazzo/a entra nella fase dell’adolescenza, la forza degli impulsi orali si fa particolarmente attiva: sente forte il bisogno di introiettare, assumere in sé, ricevere e riempire il proprio mondo più profondo di cose buone. Nella femmina questi processi introiettivi sono ulteriormente intensificati dalla natura recettiva della sua genitalità femminile che è qualcosa di naturalmente conosciuto fin da piccola. Dall’altra parte il desiderio introiettivo è fonte di ansia.  Mentre il maschio teme la perdita dei genitali quali preziosi portatori di vita (ansia di castrazione), la femmina invece teme che, introiettando, qualcosa di dannoso possa introdursi in lei (ansia di intrusione). Ciò non significa che la donna non possa temere la perdita di potere, né che gli uomini non temano l’intrusione. Ma nella femmina l’ansia di intrusione, collegata alla sua genitalità, predomina.

Uscendo da questa visione tipicamente psicoanalitica, va tuttavia riconosciuto che in questa fase l’adolescente si sente sollecitato a lasciare l’ambito rassicurante della famiglia ed aprirsi maggiormente al contesto sociale. Tale apertura può provocare ansia, con il timore di non riuscire (maschio) o di venire ferita (femmina).

In un momento di passaggio così critico la funzione della madre è discriminante in quanto funge da contenitore che accoglie le ansie, le elabora e le rinvia alla figlia con significati meno minacciosi e più accettabili. Ciò implica una capacità di comprendere le turbolenze adolescenziali della figlia e saper dosare i messaggi di vicinanza e quelli di autonomia, di intraprendenza e quelli di limitazione. Se, al contrario, per varie ragioni ciò non si verifica la giovane ripiomba nelle sue paure, non modificate e sconosciute, di essere invasa. La situazione peggiora ancor più se la madre è lei stessa disturbata e problematica, nel qual caso c’è la possibilità che proietti sulla figlia i propri desideri e sentimenti conflittuali, secondo il fenomeno del capro espiatorio. Il rifiuto del cibo può allora rappresentare una fuorviante difesa contro gli insopportabili sentimenti proiettati in lei dalla madre.

Tutto ciò rende ragione dell’ansia d’intrusione: nonostante l’assenza di abuso fisico, si è ugualmente verificata un’indebita invasione psichica.

 
Ti amo così tanto da distruggerti

Impaurita di essere invasa, l’anoressica tende a sua volta ad essere invadente.

Il controllo non si limita all’ambito terapeutico, ma la spinge ad introdursi anche nella vita privata dell’analista. Questo mio costante riferimento al transfert sull’analista non deve sorprendere: i veri sentimenti dell’anoressica sono così profondamente inconsci che sarebbe pressoché impossibile farli emergere nella vita corrente e il transfert è il veicolo privilegiato se non unico per poterli intravedere.

Ecco un esempio di invadenza. Una donna, in cura ormai da parecchi anni, si percepiva speciale proprio per avere avuto così tanti terapeuti e di ognuno sottolineava il modo speciale di relazionarsi a lei. Non si sa come, ma era venuta a conoscenza, forse perché di dominio pubblico, che l’ultima analista lavorava pure in un altro centro situato nel quartiere di residenza della paziente. Dapprima accusò l’analista di invadere il suo spazio, di fare la spesa al suo supermercato, di servirsi dei suoi mezzi di trasporto…. e finì con il pedinarla seguendola lungo tutto il tragitto dal luogo di lavoro alla sua abitazione. L’analista faticò non poco per modificare continuamente il percorso in metropolitana onde evitare di trovarsela sempre davanti.

 Come si vede, man mano che la paziente intensifica le fantasie di una relazione speciale con il terapeuta nello stesso tempo la interpreta come imposta e intrusiva. È il conflitto dell’anoressica: da una parte la brama di vicinanza e dall’altra il terrore della vicinanza, la ricerca affannosa di un oggetto e il rifiuto dello stesso. Quell’oggetto, da parte sua, si sentirà disperato.

L’ambiente familiare è un campo privilegiato di attacco. L’obiettivo da colpire è la coppia genitoriale.

Si è già visto che, nella fusione madre – figlia, il padre risulta assente fisicamente o emotivamente. Ciò non è dovuto necessariamente a famiglie con genitori separati, quanto piuttosto a un vuoto di significato, come se il padre contasse poco o nulla. È abbastanza frequente che l’anoressica dipinga la propria famiglia con un padre assente e senza significato, un quadro il più delle volte non rispondente a realtà. Anzi, può cercare di convincere i genitori (non a parole ma attraverso la sua malattia) a non avere più relazioni intime e imporre la tesi che l’unica relazione relativamente intensa è con lei. A volte esprime questo suo attacco separazionista tenendo a far presente al terapeuta che i genitori dormono in stanze separate agli angoli opposti della casa e quindi non possono avere relazioni sessuali a sua insaputa. Oppure è abbastanza frequente che il problema anoressia della figlia porti, nel tempo, la madre a dedicarsi totalmente a lei e il padre a fuggire dal problema.

Gli attacchi nascono dal terrore di sentirsi la piccola bambina lasciata sola mentre i genitori se ne stanno assieme. Le sue inconsce distruzioni hanno lo scopo di proteggere la sua relazione indifferenziata e unica con la madre onde evitare la sofferenza e solitudine che inevitabilmente accompagna la soluzione matura della fase edipica che comporta la relazione ma con autonomia e il riconoscimento/accettazione della relazione intima che i genitori hanno fra loro e che si differenzia da quella che hanno con i figli.

 
Non riesce a distanziarsi da se stessa

La difficoltà a superare questa fase edipica sembra collegata a un inceppamento nel processo di simbolizzazione senza il quale l’accettazione e la comprensione delle difficoltà diventa più difficile.

La relazione così adesiva con la madre (di tipo pre-edipico) non concede lo spazio necessario al ruolo del padre, rappresentante l’altro o la terza posizione che si pone tra madre e bambino e che crea lo spazio mentale necessario per lo sviluppo del funzionamento simbolico.

Questo processo non è facile da concettualizzare anche perché non è del tutto chiaro in ambito clinico ciò che è causa e ciò che conseguenza. Sta di fatto che la paziente rende la situazione particolarmente ostica avendo limitate capacità ad affrontare le proprie difficoltà in modo simbolico. Non riesce ad avere una visione retrospettiva che le permetta di ragionare sulla sua relazione con i genitori e sembra invece regredire alla così detta equazione simbolica: madre = cibo. Vale a dire, percepisce la madre come nutrimento anziché il nutrire come una delle sue funzioni. La madre è come il cibo da mangiare e non colei che dà il cibo. In un mondo così angusto di oggetti concreti il ruolo del padre non trova spazio e quindi la sua significanza viene negata. Anzi nella mente dell’anoressica il padre é sovente equiparato a una minaccia catastrofica che strapperebbe la coppia madre – figlia.

Con un tale cumulo di ansie la sua mente è dominata da una figura il cui scopo è di introdursi e danneggiare e non riesce a simbolizzare nulla di tutto ciò, non riesce a pensare a questo riguardo o usare parole per cercare di far fronte al problema. Non riesce a discutere su ciò che non funziona o è sbagliato o si potrebbe affrontare altrimenti. Sa semplicemente che l’ultima cosa da fare è mangiare, benchè non sappia esplicitarne la ragione. I discorsi con lei sono ripetitivi e non avanzano di un passo.

In altre parole, resta incapace di pensare se stessa in un processo di maturazione verso la donna adulta e quindi in grado di assomigliare alla madre ma anche essere diversa. Rimane invece incollata al corpo femminile, originariamente quello materno, ma ora anche suo. Più nel suo inconscio attacca la madre nello sforzo di liberarsi dall’unica pelle che le unisce, più diviene ansiosa e tende a banalizzare tutti i pensieri e i collegamenti con la realtà concentrandosi invece sul proprio corpo che attacca sia in fantasia che in realtà con eguale forza distruttiva.

In questo orizzonte il rifiuto di mangiare acquista un certo senso. Rappresenta un tentativo di acquisire un’identità propria e un prendere le distanze sia da quella della madre che da quella del padre. Ma poiché l’illusione resta al centro di questa psicopatologia, la negazione della realtà della madre e del padre continua e la paziente persevera in un circolo vizioso di auto distruzione e nello stesso tempo, suo malgrado, di distruzione dell’oggetto d’amore. Un circolo vizioso dentro il quale lotta ma da cui non riesce ad uscire.

Tutto questo interpella genitori ed educatori innanzitutto a non banalizzare la situazione supponendo che con il tempo e un po’ di pazienza tutto si risolverà, oppure pensando che con qualche presa di posizione drastica o comunque di fermezza si otterranno dei risultati. Se l’anoressia non risulta una reazione transitoria a un fattore precipitante ma al contrario si protrae nel tempo va affrontata da persone competenti il più presto possibile.

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