Di madre in figlio? Cure parentali e sviluppo della personalità


Enzo Brena

Tredimensioni, 2(2005)1, 50-61
 


Lo sviluppo umano è un intreccio di forze interne all’io e di sue relazioni con il mondo esterno. Di questo secondo elemento, parte essenziale è la particolare e unica esperienza costituita dallo scambio che intercorre tra bambino e figure parentali (soprattutto la madre) che avviene fondamentalmente a livello emotivo-affettivo, ma con radici «corporee» nell'ambito biologico e fisiologico.

In uno studio sui disturbi psichici infantili Richter, già negli anni settanta, si chiedeva di quale tipo fossero le influenze dei genitori a tale proposito. Accanto all'importanza delle misure educative e delle pratiche esteriori, che egli considerava relativa, riteneva necessario riconoscere che «molto più in profondità e più duramente, il bambino rimane impressionato dalle tendenze affettive, dalle angosce e dai conflitti dei genitori che egli, con sorprendente empatia, indovina esserci, in certo qual modo, accanto e dietro alle pratiche educative esterne. Questo strato profondo degli atteggiamenti affettivi dei genitori che giunge fino all'inconscio, deve essere tenuto in considerazione se se ne vuole verificare l'effetto sullo sviluppo psichico del bambino. A sua volta Sullivan, studiando il passaggio dell'angoscia materna al bambino, giungeva a teorizzare che «la tensione dell'ansietà, quando è presente nelle cure materne (mothering), induce ansietà nel bambino».


Un recente studio longitudinale

Tanti studi hanno indagato sul rapporto madre - bambino per stabilire in quali ambiti e con quale portata la madre influisca sul futuro del figlio. Su uno vogliamo riferire, per la sua completezza e imponenza: il Brody Longitudinal  Study.

Nel 1964 la psicoanalista Sylvia Brody e l’educatore Sidney Axelrad iniziarono un progetto longitudinale (durato 30 anni) con 131 bambini di diversa estrazione sociale ed etnica nati a New York, inteso a studiare gli effetti del comportamento parentale sul loro sviluppo. Basandosi sulla teoria evolutiva e metodologia psicoanalitica, il progetto seguì molto da vicino questi bambini nei loro primi sette anni di vita:

·      dapprima filmando le madri mentre interagivano con i loro figli,

·      in seguito con interviste del profondo delle madri e dei padri per sondare atteggiamenti e conflitti nei confronti dei loro figli, eventi particolari nella vita dei piccoli e il tipo di relazione coniugale,

·      con visite a casa e a scuola,

·      con una valutazione psicodiagnostica dello sviluppo cognitivo ed emotivo dei figli,

·      e, quando i figli avevano raggiunto i 18 anni, con un maggiore accompagnamento personale degli stessi.

La ricerca voleva vedere se e quanto, sullo sviluppo della personalità e salute mentale del futuro adulto, influiscono il tipo di cura materna durante l’infanzia, le esperienze familiari della fanciullezza e le esperienze traumatiche prima dei diciott’anni.

L’ipotesi di partenza era questa: la relazione della madre con il bambino durante l’infanzia può avere implicazioni fondamentali per il successivo sviluppo mentale del figlio. A partire da precedenti scoperte della Brody (circa il fatto che i diversi modelli di cura materna si basano su conflitti internalizzati e che il modo in cui una madre nutre il figlio ingloba la di lei generale capacità di risposta al figlio stesso), i ricercatori si sono concentrati sui sentimenti e sull’interazione della madre con il proprio bambino, in particolare nel momento del nutrimento, durante il primo anno di vita. I padri, invece, entravano direttamente nello studio quando i bambini avevano raggiunto i quattro anni.


A un anno di vita

L’interazione che la madre aveva con il piccolo in questo primi 12 mesi veniva valutata, con criteri clinici e osservazioni, in base alle seguenti caratteristiche materne: empatia, controllo, efficienza, organizzazione, consistenza, impegno, riflessione, affetto e aggressività nel momento del nutrimento. Alla fine dell’anno, le madri vennero classificate in sei gruppi, poi ridotti a due per motivi statistici: cure materne più efficaci (gruppo A, 42 madri), e cure materne meno efficaci (gruppo B, 80 madri).


A 18 anni

Alla luce dei dati ottenuti dall’accompagnamento di questi bambini fino alla età di 18 anni, si poté evincere che l’adeguatezza delle cure materne profuse nel primo anno della loro vita aveva una continua influenza su molti aspetti della crescita psicologica dei figli. In specifico:

  • A un anno di età i figli delle madri più efficaci avevano uno sviluppo motorio e cognitivo più avanzato dei figli delle madri del gruppo B, presentavano umori e affetti più positivi, mostravano un maggior coinvolgimento nel loro mondo, più spontaneità, sensibilità, curiosità e tolleranza alla frustrazione e meno ansietà e tensione.
  • A sette anni, i figli delle madri del gruppo A mostravano migliori autostima, relazione oggettuale e reality testing, e minori ansietà e difese patologiche.
  • Ugualmente ai 18 anni, per i figli delle madri del gruppo A la tendenza al miglioramento era confermata: avevano una migliore visione di sé e dei genitori, una maturità psicosessuale più avanzata, qualità caratteriali che riflettevano uno sviluppo del super–Io più favorevole, migliori relazioni oggettuali e controllo dell’ansietà, meno psicopatologia, difese più mature così come più mature erano le aspirazioni relative alla carriera rispetto ai figli delle madri del gruppo B.


Dopo 30 anni

Nel 1994, quando cioè gli ex bambini della ricerca avevano raggiunto l’età di trent'anni, i ricercatori riuscirono a rintracciare 80 di loro, dei 91 visti dalla Brody quando erano diciottenni, e ne intervistarono 76. Il profilo demografico del campione era simile a quello degli inizi, anche se fra i trentenni erano più numerosi i maschi, dato che fu più difficile rintracciare le femmine. La proporzione fra il numero dei figli ora adulti dei genitori del gruppo A (quasi un terzo) e il numero dei figli dei genitori del gruppo B (due terzi) – tutti, allora, accompagnati fino ai 18 anni – era simile alla proporzione che c’era fra i bambini di un anno nei due gruppi di partenza. Nonostante una certa restrizione numerica, il campione ricostituito all'età dei trent'anni corrispondeva a quello originale, anche se nell'ultima fase della ricerca lo studio si concentrò su 76 famiglie, perché di esse esistevano dati completi dalla nascita ai trent'anni.

L’analisi di questi trentenni comprendeva l'uso di interviste audio/video registrate della durata di almeno tre ore su argomenti prescelti, ma lasciando anche spazio a libere associazioni di pensieri, emozioni e ricordi. Gli intervistatori erano di orientamento psicoanalitico, e non erano a conoscenza della vita precedente dei soggetti e della classificazione materna. Per valutare i dati d’intervista vennero utilizzate cinque scale psicodiagnostiche, atte a cogliere diversi aspetti della vita sia a livello intrapsichico che comportamentale. Esse sono:

  • Difensive Functioning Scale (Vaillant) che classifica la maturità o meno dei principali meccanismi di difesa psicologici, consci e inconsci;
  • Global Assessment of Functioning (GAF) (APA) che misura l’adattamento globale, il senso di soddisfazione e competenza e il miglioramento da sintomi psichiatrici (se presenti);
  • Measures of Psychological Functioning (Hawley) che, sulla base della teoria di Erikson, misura la maturità del soggetto negli stadi evolutivi della fiducia, autonomia, iniziativa, industriosità, identità, intimità, generatività e integrità personale.
  • Adult Attachment Interview (AAI) (George, Kaplan & Main) che valuta la percezione di sicurezza e fiducia nel legame avuto con i genitori (ad esempio, se si erano sentiti trattati bene, che ricordo hanno conservato dei genitori…).
  • In fine, la diagnosi psichiatrica all'età di 30 anni, sulla base della classificazione del DSM-IV (APA, 1994).

In che misura i risultati confermano l'ipotesi iniziale che una favorevole cura materna durante l'infanzia favorirebbe uno sviluppo migliore?

In base ai risultati delle cinque suddette misurazioni, i figli, nel continuum di adattamento–disadattamento, si piazzavano, più o meno, là dove si piazzava anche il gruppo materno di appartenenza.

Però – e questo è un punto forse inaspettato – la relazione fra efficacia delle cure materne durante l’infanzia e successivo migliore sviluppo dei figli era statisticamente significativa solo per quanto riguarda il livello delle difese dei figli diventati adulti (quindi solo per la Difensive Functioning Scale). Vale a dire, i figli delle madri del gruppo A presentano da adulti meccanismi difensivi più sani e maturi dei figli delle madri del gruppo B. In particolare, le difese psicologiche dei figli adulti delle madri più efficaci appartengono al livello più maturo (High Adaptive) e a quello immediatamente sotto (Mental inhibitions), mentre i figli delle madri meno efficaci hanno difese che stanno tra quest’ultimo e quello ancora più sotto (Minor Image Distorting).

Invece i risultati delle altre quattro scale di classificazione mostrano differenze poco significative tra i figli dei due gruppi. Per esempio, dall'Adult Attachment Interview  (AAI) emerge che una percentuale piuttosto più alta, ma non significativa, di figli che hanno sperimentato cure materne più favorevoli risultano classificati come «sicuri» nelle loro rappresentazioni psicologiche di attaccamento da adulti. Ma la stessa scala (AAI) mostra che i bambini possono passare anche da un'infanzia sicura e favorevole a uno stato adulto insicuro, e viceversa. Alcuni figli del gruppo di madri meno efficaci sono giunti al tempo della maturità ad avere immagini interne di valido e sicuro attaccamento ai loro genitori.

Elemento questo tanto importante quanto forse inaspettato: amati da bambini ne hanno un ricordo più bello e da adulti sono più amanti. Ma ciò non è automatico: amati ieri ma non per questo amanti oggi e, anche, non amati ieri ma oggi capaci di amare.

Questa mancata corrispondenza fra passato e presente sembrerebbe correggere il concetto di «attaccamento» elaborato da Bowlby, secondo cui lo sviluppo emotivo successivo è influenzato da eventi infantili che minacciano nel bambino il suo senso di salute fisica e di sicurezza del legame. In realtà, il Brody Longitudinal Study specifica ulteriormente la teoria di Bowlby nel senso che l’influenza negativa è dei traumi infantili cumulativi. Ossia, sono le ripetute avversità a turbare la capacità individuale di mantenere l'equilibrio mentale, facendo emergere sintomi e/o distorsioni caratteriali. È il risultato confermato anche da altre ricerche.

Infatti il funzionamento globale degli adulti (misurato con la scala Global Assessment of Functioning) che avevano avuto una sola esperienza infantile di trauma o avversità era leggermente più basso di quello degli adulti senza trauma infantile, ma questa differenza non è risultata statisticamente significativa. Ciò che invece rende la differenza significativa sull’esito futuro è quando nella vita del bambino le avversità si accumulano. In questo caso rimarrà chiaramente condizionato. Infatti, bambini che prima dei 18 anni avevano avuto due o più traumi o circostanze avverse avevano a 30 anni risultati GAF più bassi di coloro che non avevano avuto nessuna o una sola di tali esperienze. Non solo, ma la presenza di una circostanza avversa in famiglia – come malattia mentale o alcolismo di un genitore – rendeva più probabile il sorgere di una seconda avversità, come il divorzio, e la seconda anche una terza, come l'abuso fisico.

Interessante notare, come rilievo ulteriore, che genitori provenienti da gruppi socioeconomici più elevati non necessariamente rientravano con maggiore probabilità nel numero dei genitori del gruppo A; allo stesso modo un'infanzia vissuta in un ambiente socioeconomico migliore non rendeva più probabile una buona salute mentale da adulto.

Quindi, se l’ipotesi iniziale era che un buon livello di cure materne crea le condizioni per un buon risultato evolutivo, il risultato ottenuto è: il legame fra qualità delle cure materne (nel primo anno di vita fino a 18 anni) e successiva maturità è certamente significativo per la qualità dei meccanismi di difesa nei figli adulti. Tale legame è tanto più forte quanto più ci sono stati traumi multipli durante l’infanzia. Meno stretta è la relazione con gli altri aspetti di personalità.

Su cosa e come influisce la madre?

Dall’analisi dei trentenni, alla domanda si possono dare due risposte.

In primo luogo, lo stile della madre nel prendersi cura e nutrire il bambino nell'infanzia ha il suo impatto più misurabile sui meccanismi adattivi intrapsichici del figlio piuttosto che sui comportamenti esterni e sull'adattamento sociale che quel figlio avrà trent'anni dopo, i quali sono più variabili e fluidi del sistema difensivo appreso. In secondo luogo, gli effetti cumulativi di altre influenze – esperienziali e innate – oscurano con il passare del tempo i contributi materni.

La madre funziona come mediatrice degli stati interni del bambino, mediatrice della loro eccitazione, quiescenza, soddisfazione e tensione e media anche il rapporto tra questi stati interni e gli effetti dell'ambiente sul bambino. In sostanza, il bambino internalizza il modo con cui la madre si prende cura di lui, lo conforta, soddisfa i suoi bisogni e diminuisce i disagi. Con il passare del tempo anche lui acquisisce l'abilità di regolare emotivamente se stesso, i suoi stati interni e le reazioni agli eventi ambientali

I meccanismi difensivi della madre stessa mediano il modo di lei di prendersi cura del figlio. La sua modalità di regolazione affettiva, appresa nella sua infanzia, diviene il suo stesso modo di gestire i pensieri, sentimenti e le tensioni spiacevoli del figlio, e di mantenere il di lui equilibrio; in definitiva i meccanismi difensivi della madre divengono quelli del figlio. Questa è una parte essenziale della configurazione psicologica sana o malata che, come già aveva descritto Anna Freud, sembra stabilirsi in modo significativo nella prima infanzia e persistere nell'età adulta.

E il padre?

Altre influenze non materne e non necessariamente traumatiche influenzano lo sviluppo emotivo. Al primo posto c’è il padre. Numerose storie nel progetto rivelano che il padre influenza profondamente la crescita del figlio e il suo adattamento adulto. La presenza positiva del padre durante e dopo l'infanzia del figlio facilita la cura materna; la sua assenza cambia la natura interna dell'evoluzione emotiva del figlio, specialmente quando verso il terzo/quarto anno di vita arrivano i sentimenti edipici di tipo triadico.

Da un punto di vista analitico dei dati, il ruolo del padre nelle famiglie del progetto può apparire indirettamente in modo molto tenue rispetto all'impatto dei risultati connessi al gruppo materno. Il contributo del padre sta nel valorizzare, difendere, completare o disturbare l'influsso materno nell'infanzia. Egli costituisce il primo tipico incontro del bambino con il mondo che sta al di là della relazione diadica madre-figlio. La relazione con lui continua a formare potentemente la futura risposta del bambino al mondo che è al di là della famiglia.


Dal passato al presente: correlazione ma non causalità

L’immane ricerca del Brody Longitudinal Study offre utili indicazioni in merito al tanto discusso problema della natura del rapporto fra passato e presente.

Anzitutto, tra i bambini curati meglio e quelli curati peggio non si è rivelata una differenza significativa nel loro funzionamento globale (senso di competenza, rappresentazione interiore dell'Io, crescita emotiva…), né per l'adattamento sociale (stadi psicosociali di Erikson) e neppure per la diagnosi psichiatrica (salute mentale). Questi aspetti della personalità adulta sembrano relativamente indipendenti dal tipo di cure materne ricevute.

Invece si è trovata:

  • correlazione tra efficacia delle cure materne e sviluppo maturo delle difese nel figlio adulto;
  • correlazione tra la presenza di traumi multipli precoci e indebolimento evolutivo del figlio;
  • influsso di elementi esperienziali e innati in grado, col passare del tempo, di oscurare anche i contributi derivanti dalle cure materne.

Elementi, questi, che confermano quanto la qualità della relazione madre – figlio nel periodo pre-verbale sia incisiva sullo sviluppo dell'individuo nell'ambito specifico dello stile difensivo: chi ha ricevuto maggiori cure nel primo anno di vita in termini di empatia, coerenza, controllo, premura, affetto, gestione dell'aggressività da parte della madre usa da adulto meccanismi difensivi più maturi.

Ci sembra però significativo sottolineare il rapporto di correlazione, e non di causalità lineare (dato A segue necessariamente B), tra cure materne e sviluppo successivo. Gli autori stessi avvertono che le correlazioni non dimostrano causalità ma solo relazioni.

Il Brody Longitudinal Study dalla nascita ai 30 anni non risolve il dibattito tra chi sostiene che l'esperienza pre-edipica è fattore primo e immutabile nel controllare il resto della vita, e coloro che invece ritengono maggiormente significative le esperienze successive. Rimane da indagare meglio la forza predittiva delle cure parentali nel periodo pre-edipico sul corso dello sviluppo. Risulta, però, evidente l'effetto deleterio di traumi e avversità sulla crescita del bambino. In base a questo studio si può anche affermare che il tempo attenua notevolmente l'influenza del primo periodo di vita, attraverso eventi della vita buoni e cattivi, e ulteriori influssi della famiglia e della comunità a ogni stadio evolutivo. Lo sviluppo è un processo tanto continuo – dalle esperienze della prima infanzia fino all'età adulta – quanto discontinuo.

Questi dati invitano a non indulgere a semplicistiche equazioni di tipo deterministico: data una certa relazione con la madre nell'infanzia si danno necessariamente precise conseguenze nella configurazione globale della personalità del figlio. O, più semplicemente, i problemi si tramandano di madre (padre) in figlio… con l'implicita conseguenza che a questa relazione causale si riconduce anche ogni riferimento circa la questione della responsabilità nei confronti degli stessi problemi. Queste, sono frasi ad effetto ma nonj dimostrate.

Semplificazioni di questo tipo – niente affatto rare – non tengono conto della complessità del divenire della persona umana. Sorvolano sul fatto che «ad ogni passo dello sviluppo umano si incontrano il confronto, lo scontro e l'interazione tra fattori intrinseci e quelli estrinseci al soggetto, tra il suo passato e il futuro… Così il confronto, scontro e interazione avviene tra strutture che si sono stabilite nella persona e il continuo processo: non si tratta infatti mai di un ritorno puro e semplice – di fatto impossibile – a un passato considerato solo temporalmente, ma di una riconsiderazione e forse di un recupero di quelle strutture che, acquisite nel passato, permangono esercitando il loro influsso nel presente e condizionano il futuro».


Conoscere il passato

La ricerca qui presentata offre all’educatore utili indicazioni per come accostarsi alla biografia delle persone. Egli deve conoscere chi vuole aiutare, compresa la sua storia, il più possibile dettagliata. L’anamnesi deve utilmente comprendere:

  • descrizione dei singoli componenti della famiglia così come oggi il soggetto li vive in sé (madre, padre, fratelli e sorelle, parenti particolarmente significativi…); in particolare raccogliere  i primi ricordi sul rapporto avuto con i genitori (soprattutto la madre);
  • storia della famiglia nel ricordo dell'individuo (rapporti tra i genitori, dei genitori con i figli, tensioni e problemi familiari, eventi particolari) al fine di registrare lo stile relazionale del soggetto e la eventuale presenza di traumi e/o eventi problematici precoci che abbiano inciso sul cammino evolutivo;
  • storia personale del soggetto stesso: primi ricordi, memorie e incontri significativi dell'infanzia; ingresso nel mondo scolastico con relativi ricordi, amicizie; esperienze particolari, decisioni prese…

Tutto ciò, però, non per concludere con spiegazioni di tipo causale (poiché fu così, quindi è) quasi che l’oggi sia una ripetizione dell’ieri. Conoscere la storia non serve per conoscere la storia, ma per capire meglio come la persona oggi organizza il suo mondo interiore secondo una modalità legittimata e chiarita meglio da come ha vissuto il suo passato. Non l’oggi in funzione dell’ieri, ma il contrario.

Tolta la causalità, eventi, strutture e memorie del passato, per quanto importanti da conoscere, vanno tuttavia considerati tenendo conto del fatto che ogni individuo è e rimane sempre un mistero, non riducibile a schemi chiusi e ripetitivi, applicabili in maniera automatica. Ad esempio, nella ricerca è risultato che il 21% dei figli aveva avuto percorsi marcatamente diversi da quelli originariamente intuibili e ipotizzabili sulla base delle cure materne iniziali. Otto dei ventisei figli di madri efficaci aveva, da adulto, risultati significativamente indeboliti; e nove dei figli di madri meno efficaci avevano trent'anni dopo un funzionamento superiore nella scala GAF.

L'attenzione dell'educatore dovrebbe crescere sempre più in conoscenza e dimestichezza con i parametri fondamentali dello sviluppo, e allenarsi a leggerlo non solo come sequenza predeterminata e lineare ma anche come discontinuità e sproporzioni tra cause ed effetti, proprio perché nello sviluppo si ostenta progressivamente il mistero della persona e non solo il suo corredo psichico.


Rispettare il diritto al futuro

È sempre importante, anche in margine allo studio qui presentato, riconoscere all'individuo la libertà di affermarsi come persona singola e irripetibile e di auto-determinarsi per il bene. Non si tratta certamente di una libertà assoluta ma limitata, dato che deve fare i conti con la forza di condizionamenti consci e subconsci. Ma non ci sarebbe futuro né speranza (né opera educativa) se non si credesse nella possibilità della libertà dell'individuo di affermarsi, in qualche misura, e di rendere possibile la crescita. Lo studio qui presentato dimostra che questa speranza non è una velleità ma un dato che si realizza in natura.

È utile, da un punto di vista di antropologia psicologica, fare una distinzione tra libertà essenziale e libertà effettiva. La prima, come capacità di auto-determinarsi per il bene attraverso l'introspezione, riflessione e decisione, è una cosa; la seconda è un'altra perché indica quanto quella libertà può concretamente esercitarsi in una scelta tra altre possibili. A parte alcuni casi di grave patologia, è sulla libertà effettiva che influiscono le limitazioni subconsce che hanno segnato il percorso di vita. Su come l’educatore intende la libertà si gioca il suo modo pratico di agire.

Sull'onda di una certa antropologia deterministica, l’educatore può ragionare in termini di stretta causalità e quindi considerare la libertà umana alla stregua di un'illusione. Di conseguenza, nella prassi, interpreterà il comportamento attuale come frutto di forze determinanti radicate nel passato che possono «spiegare» il presente, e così, insieme alla libertà, questo educatore compromette anche la possibilità di fare appello alla responsabilità.

Se, al contrario, l’educatore ha un'antropologia più spiritualista, può identificare la libertà con una spontaneità soggettiva che, al di là delle limitazioni individuali, può comunque guidare l'individuo alla pienezza dell’auto-realizzazione. Questo ottimismo lo porterà a consigliare che ogni scelta è possibile e anche buona se l'individuo la vuole veramente.

Un'antropologia che sostiene, invece, la libertà «essenziale» della persona umana, anche se «effettivamente» limitata da fattori interni o esterni, rende l’educatore capace di accogliere la persona così come è per aiutarla a diventare come potrebbe e dovrebbe essere.

 
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