Il mondo si è spostato: e noi dove siamo?


Editoriale
Tredimensioni XX(2023) 9-14


Si può ancora parlare di un mondo secolarizzato? Secondo alcuni sociologi anche questo tipo di mondo è finito, e forse la cosa potrebbe dare fastidio proprio a chi più si è scagliato contro l’azione di secolarizzazione in essere nel secolo scorso. Già, perché non sembra essere una buona notizia, a dispetto di chi crede che la fine della secolarizzazione rappresenti il “ritorno di Dio” sulla scena pubblica. Probabilmente era la prospettiva di quel progetto culturale risalente ad una manciata di anni fa e che articolava una convinta azione della Chiesa con cui realizzare una controffensiva sulla secolarizzazione, una specie di contropiede per andare a segnare nella porta di chi in quel momento stava attaccando. O almeno questo vale per l’Italia, perché in altri Paesi europei l’idea non allettava per nulla. Il risultato oggi è quello di un mondo post-secolare: un mondo che non si pone nemmeno più il problema di Dio. Sono molti gli autori che ne parlano[1] e va oltre i confini di questa rivista esplorarne i risvolti filosofici e sociali. A noi interessa soltanto metterne in luce le ricadute sul cammino di un credente comune, che abita un mondo nel quale nessuno si definisce secolare perché vorrebbe dire ammettere che la religione ancora lo interessa, quanto meno per prenderne le distanze. E invece la sensazione crescente è che il discorso religioso ormai non interessi più. 


Stati e religioni 

Il contropiede di cui sopra si parlava era descrivibile in un contesto di antagonismo: da una parte la Chiesa, l’azione evangelizzatrice, il proselitismo, la religione, ecc.; dall’altra il laicismo, l’autonomia dello Stato, l’azione di marginalizzazione di ogni credo rispetto alla vita politica o religiosa. Non è sempre stato così, va detto: per quanto crediamo che i problemi nascano improvvisamente, in verità essi si inseriscono sempre in solchi predeterminati a volte da secoli di storia. Il Medioevo in Occidente ha visto l’identità tra Stato e Chiesa: uno stato, una religione. È quello che ancora oggi riscontriamo, soprattutto se lo sguardo si volge verso Oriente. Teocrazie e Chiese di Stato hanno risolto il problema al cittadino: la fede è parte integrante dell’essere membro di quella società. Nessuna scelta pubblica alternativa è possibile, poi magari in privato il singolo non crede in ciò che proclama pubblicamente. Ciò che si salva, tuttavia, non è solo l’apparenza, ma anche la coesione sociale: si perde qualcosa in libertà, non viene ammesso il dissenso, ma la convivenza è più pacifica perché il rettangolo di gioco e le regole che vi si applicano sono facili. Piacerebbe a Gesù un discepolato così?

Le guerre di religione che hanno segnato l’Europa con fratture dolorosissime hanno portato alla tolleranza. L’unità dello Stato ammette la pluralità delle religioni. Essere praticanti rimane uno status diffuso, anzi persino auspicato dallo Stato: nessuno scandalo, tuttavia, se qualcuno pensasse di non frequentare alcun luogo di culto; anche l’ateismo avrebbe piena cittadinanza nella cerchia della tolleranza. I diritti sarebbero garantiti a tutti, senza distinzioni, facendo della libertà il principio assoluto e chiedendo in cambio alle religioni di proteggere questi principi di tolleranza. Qualcuno ha pensato di uscire da ciò che aveva provocato i conflitti religiosi percorrendo una strada decisamente più belligerante, immaginando invece un ateismo di Stato, facendo guerra ad ogni religione, ma in fondo andando a ricadere in una forma assolutista non difforme da chi voleva il pensiero unico. 

L’evoluzione successiva è stata proprio la nascita degli Stati secolari, quelli cioè che hanno assunto una posizione assolutamente neutrale nei confronti delle religioni e andando a stabilire una impermeabilità netta tra la polis e il religioso. Vi è un diritto fondamentale a essere religiosi oppure non-religiosi, iniziando a garantire una lettura del mondo e della convivenza che sia protetta da convinzioni di parte. Mai fede, al massimo religione; mai Chiesa, al massimo comunità religiosa; non Natale o Pasqua, al massimo festività. I linguaggi dei credenti sono legittimi fino a che restano circoscritti all’interno della cerchia dei praticanti o comunque di quelli che vi si riconoscono, sapendo che il superamento di certi confini genererà ogni volta inutili tensioni con chi non vi si riconosce. 


L’ennesimo “post-“ 

Il mondo post-secolare non ha nessun bisogno di definirsi neutrale rispetto alla religione: semplicemente non gli interessa. La religione è ritenuta talmente irrilevante che non si sprecano neppure parole o energie per affermarla. Che bisogno c’è di mettersi in dialogo con qualcosa che non ha più alcuna rilevanza? Si può rimanerne del tutto indifferenti. «Che le convinzioni religiose o non-religiose possano essere giustificate o meno razionalmente o moralmente è una questione che riguarda le persone che le professano, ma in nessun modo una faccenda o un compito dello Stato»[2]. È arrivato il triplice fischio di fine partita sulla religione ed è scesa una coltre nebbiosa e fredda di indifferenza: che ci sia o non ci sia religione, alla società non importa. 

Dagli Stati religiosi a quelli post-secolari, lo sviluppo è progressivo e graduale: forse persino inarrestabile, con buona pace di chi ha provato in tutti i modi a resistervi. Perché non ingranare la retromarcia? Perché privarsi della possibilità di sognare una nuova Societas Christiana, una rediviva civiltà cattolica? «Almeno moriamo combattendo», penserà qualcuno. Il problema è che la società ha adottato quello stile gentile delle arti marziali che sfrutta l’impeto dell’aggressore per farlo rotolare a terra. Si spinge, si lotta, ma la società non oppone più alcuna resistenza, preferendo invece l’arma dell’indifferenza. Una pasionaria, di qualunque estrazione essa sia, o crociati di varia natura, non liberano nessuna Gerusalemme perché l’assedio non c’è più.


Game over per la religione? 

Se si rimane chiusi nel proprio recinto, si può ancora credere che “tra noi” si respiri uno spirito cristiano e che da questo germe potrà scaturire una nuova Reconquista. Tuttavia, la domanda resta: siamo davvero stati invasi dalla secolarizzazione? Forse nel secolo scorso, ma ormai esso è parte di un altro millennio. Quello che non è cambiato, invece, sono gli individui, i quali continuano ad essere portatori di domande e cercatori di un qualche segnale che indichi una direzione verso cui orientarsi. Lo Stato post-secolare non minaccia la fede degli individui, perché in fondo non è così diverso dal clima di secolarizzazione che ormai tutti abbiamo respirato dalla nascita. Con il mondo post-secolare non è impedito il cammino a chi voglia provare ad essere discepolo di Gesù o voglia aderire a qualche altra religione. Con buona pace dei crociati in pectore. 

Quello che cambia in modo radicale è il ruolo della Chiesa all’interno della società, destinato ad essere visto dall’esterno come un club di soci che hanno l’hobby della lettura del Vangelo. Facciano pure, solo che non pensino di convertire qualcuno! Quando addirittura non si affermi l’idea che quello è un posto malsano, capace di produrre pedofilia e lotte di potere, o peggio ancora che voglia riportare indietro le lancette della storia verso un tipo di società che oggi verrebbe rigettato al pari di qualunque Stato religioso che si volesse imporre in Occidente. Sempre più alta è la pressione sulla Chiesa, sulla sua struttura interna, sul suo modo di presentarsi alla società civile, sulla sua formazione. 

Il mondo post-secolare non spaventa i singoli credenti, che sono alla fine gli stessi di prima: hanno solo maturato il disincanto verso tutti quei sogni che sono arrivati loro dall’ultima generazione scomparsa (quella che immaginava il ripristino di una cristianità militante e rilevante a livello socio-politico). I singoli e le piccole comunità possono continuare a vivere il loro cammino di fede, a patto però di lasciar cadere molte aspettative relative alla Chiesa come istituzione, al suo ruolo pubblico, alla sua capacità di organizzarsi e di rispondere ai bisogni delle persone. La domanda sulla configurazione della Chiesa e sul suo ruolo pubblico è dirompente. 


Ecclesia semper reformanda 

Ogni volta che si intraprende un cammino (sinodale a livello di Chiesa universale o particolare; capitolare a livello di Congregazione religiosa...) si comincia sempre con un invito alla conversione personale. La prassi è talmente tradizionale, che sarebbe da folli metterla in discussione. Perché rimane vero che è dal cuore del credente che si può avviare ogni singola metanoia. Non vorremmo però che si finisse sempre con il colpevolizzare i singoli per ogni insuccesso di riforma. Come detto, la società post-secolare non mette in discussione la fede dei singoli, ma la forma stessa della Chiesa. 

La vera questione non sta tanto nell’accettare di essere minoranza, ma nello scoprirsi irrilevante o per lo meno incapace di generare appeal. Non si tratta di rassegnarsi ad una presunta inutilità del messaggio cristiano, perché la buona notizia non teme la perdita del sapore. Anche a livello individuale la domanda di senso e le crisi esistenziali continuano a rimordere le coscienze, e dunque per la fede dei cristiani sono garantiti tanto la condizione di possibilità quanto lo spazio per una testimonianza. Ma è l’istituzione a perdere quota, come levatura morale, come agenzia capace di condizionare le agende politiche, come ingranaggio di una catena capace di modificare le traiettorie delle società civili. 

Le sue strutture sono concepite per presidiare un territorio: le chiese sono presenti in ogni Paese e, in quelli più grandi, possono essere anche numerose. Ad ogni stazione dovrebbe poi soggiornare una sentinella, per vigilare con la sua presenza sulle diverse porzioni di territorio. Peccato che il personale non sia più sufficiente né ubiquitario a custodirlo, nonostante le automobili e il web, e ormai le persone si sottraggano allo sguardo e alla cura del ministro ordinato. La Chiesa cattolica non ha più la forza di reggere tutti i presidi territoriali con i suoi funzionari; ma soprattutto non interessa più a nessuno che lo faccia, se non a lei stessa. Alla società questo compito non importa, salvo invocarne la presenza nei settori caritativi dopo averla esclusa da tutti i tavoli decisionali. E così mancano le risorse per custodire quelle postazioni che rischiano spesso di diventare ormai dei musei, nonostante le indicazioni di papa Francesco. 

Viene allora da interrogarsi su come vadano ripensati i ruoli di chi a vario titolo compone la “gerarchia” della Chiesa, che si è strutturata non solo per un tempo diverso ma anche per una funzione differente all’interno della comunità degli uomini. Nella città post-secolare e tra i suoi cittadini, chi sono chiamati ad essere le guide delle comunità cristiane? Se si ridefinisce la funzione, ne deriva che andrebbe ripensato anche l’iter formativo di coloro che un domani dovranno svolgere il ministero pastorale. L’audacia non può mancare in questa fase, pena un crescente scollamento tra il modo che i presbiteri hanno di concepirsi ed il ruolo effettivo che possono svolgere. Uno scollamento di questo genere non potrà che produrre tante sofferenze. 
 

 


[1] Chi fosse interessato ad una rassegna di autori sul tema, troverebbe una bella fotografia in P. Costa, La città post-secolare: il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, Queriniana, Brescia 2019. 

[2] I.H. Dalferth, Trascendenza e mondo secolare. Orientamento della vita alla presenza ultima, Queriniana, Brescia 2016, p. 47. 

 

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