L'esperienza insegna... ma non sempre


Editoriale
Tredimensioni 16(2019)3, 228-231


Alla fine dei conti, se uno non fa esperienza di certe cose sulla propria pelle, per convincerlo della loro bontà non c’è ragionamento o raccomandazione che tenga.

Ma fare esperienza non è così facile ed automatico. È possibile fare tante esperienze e restare ottusi come prima.


Per alcuni, fare esperienza è andare dove la vita ti porta, anziché imparare a guidarla in base alle proprie aspirazioni («Ma lascialo fare! Vedrai che imparerà!»). Per altri è acquisire abilità e tecniche (ad esempio, il medico di esperienza). Per altri è la somma degli eventi che hanno segnato la loro vita («Secondo la mia esperienza posso dire che...»). Per altri è l’insieme dei dati «bruti» (non analizzati) che ci sono accaduti («Non hai esperienza!»). Per altri è ciò che la percezione suggerisce, spesso o qualche volta anche in contrasto con i dati del pensiero («Per esperienza, mi sono dovuto ricredere»)...


Un dato è evidente: fare esperienza non è darsi da fare. Darsi da fare e basta rende stupidi (vedi, ad esempio, chi è in continuo movimento ma sempre con la testa nel sacco).

Un po’ meglio sarebbe rendersi conto di ciò che si fa, si intende fare o si è fatto.

Ma anche questo è meglio «solo un po’» perché si tratta di un atto soltanto conoscitivo o intellettuale. Presuppone, cioè, la capacità di mettersi di fronte a qualcosa già posto o che si intende porre e guardarlo con gli occhi critici del giudizio.


Questo rendersi conto delle cose è già meglio che agire con la testa nel sacco. Ma non è ancora il massimo. Per cui diciamo che fare esperienza non è riflettere, dopo, su ciò che si è fatto (coscienza conseguente) e non è neanche soppesare prima di fare (coscienza antecedente).


Fare esperienza, nel senso più pieno del termine, è percepire ciò che sta nascendo nella coscienza di chi sta vivendo in prima persona una certa cosa. È la modalità dell’esperire stesso. Non è solo il fare, non è solo essere coscienti di ciò che si fa, si è fatto o si farà, ma è il tipo di presenza a se stesso di chi fa. Parliamo infatti di «coscienza concomitante», che è diversa dalla «coscienza antecedente» (soppesare prima di fare) e dalla «coscienza conseguente» (riflettere su ciò che si è fatto). È utile quell’esperienza che parla di chi la fa. La domanda pertinente è così formulabile: «Mentre ti rendi conto di ciò che stai facendo, che tipo di consapevolezza di te stesso stai vivendo?». Sembra un giro di parole, ma quello che si vuol dire è che l’esperienza insegna non quando si fa qualcosa (seppur significativo) ma quando, grazie ad essa, uno impara a sentirsi mentre fa: «Fai quello che vuoi, giusto o sbagliato che sia, ma tu come ti vedi mentre stai facendo? Come ti vivi, ti senti, ti percepisci, ti fotografi, ti definisci? Quale dignità potresti attribuirti?...». Ad esempio, facendo posto all’altro bisognoso, il volontario si sente risvegliato nel meglio di sé, nella sua generosità, e si chiede: «Che cosa di me vive, viene alla luce, prende corpo tramite questa esperienza? Che cosa di me essa chiama in campo, sollecita?». Altrimenti, il suo volontariato è solo una prestazione d’opera non retribuita.

Questo auto-appropriarsi non è un esercizio intellettuale ma l’acquisto di una sensibilità, di una presenza a se stessi. L’esperienza è buona quando mi aiuta a costruirmi in modo buono, e mi costruisco in modo buono quando arrivo a possedere un «termometro» che misura la mia temperatura interiore.


Uffa!!! Ma quante complicazioni! Ma dobbiamo proprio scervellarci così tanto? E il poverino che non è andato a scuola come fa? Come spiegargli che l’oggetto della esperienza non è «altro» da sé ma qualcosa attraverso cui prende coscienza di sé?


Non c’è bisogno di spiegarglielo, perché lo sa fare da solo. Non c’è bisogno che sprema il cervello perché sentirsi non è una attività che richiede l’uso del cervello. Sentirsi nel momento in cui si fa è (come il battito del cuore) un moto spontaneo della nostra interiorità. Il guaio è che passa inosservato. L’esperienza ci parla di noi, di come ci appropriamo di noi stessi. Purtroppo questi «guizzi» o «rigurgiti» che il fare ci invia li lasciamo perdere. E così, l’esperienza non insegna.


Sentirsi nel momento in cui si fa qualcosa è un atto spontaneo. Viene da solo perché è un accessorio di fabbrica. Appartiene alla nostra natura di essere dei soggetti umani, anziché marziani, cavalli, farfalle, macchine in movimento. Sentirsi bene, male, molto bene, molto male con se stessi è automatico. Non c’è nessuno che non si senta umiliato quando si accorge di essere profanato. Non c’è nessuno a cui piaccia ridursi ad un oggetto da sfruttare. Non c’è nessuno che sia scontento di sé quando ha fatto un’opera buona. Questa spontanea coscienza concomitante c’è nel bambino e nel vecchio, nel sano e nel malato, nel virtuoso e nel malvagio. Accendere o spegnere il suo interruttore non è a nostra disposizione: per fortuna..., perché in questo modo il miglioramento o la correzione di rotta è sempre possibile. Che il sentirsi non sia un atto intellettuale, una prerogativa da super testoni ma un termometro regolatorio interno lo dimostra il fatto che l’intelligenza può giocare a sfavore di questo sentire noi stessi in modo immediato...: quando la usiamo per «fare i furbi», ossia tacitando, reprimendo, distorcendo, fraintendendo i moti spontanei che il fare invia alla nostra anima. L’intelligenza, per certi aspetti, ci frega, portandoci lontano da noi stessi.

In termini psicologici diciamo che un atto cosciente (come quello della presenza a se stessi) non chiede necessariamente deliberazione e non necessariamente è un atto conoscitivo. Siamo coscienti di tante cose che succedono in noi senza, per questo, essere in grado di verbalizzarle, riconoscerle, riflettervi sopra... Eppure ne siamo coscienti perché quei movimenti interiori li sentiamo o se rifiutiamo di sentirli riaffiorano da soli e su di essi l’eutanasia non è possibile. Insomma, questa coscienza concomitante diventa conosciuta se la sottoponiamo a riflessione e intellezione, ma anche senza questo passo è viva e attiva.


Allora, fare esperienza è proprio l’opposto di «aguzzare l’ingegno». È, più «semplicemente», lasciare che ciò che facciamo ci dia notizia di noi stessi.


L’esperienza insegna quando mi aiuta ad essere presso le cose con cui ho a che fare. A trovarmi bene là dove abito perché mi rendo conto di che casa si tratta (non vivo in un labirinto di specchi o come Alice nel paese delle meraviglie) e che in quella casa ad abitarci sono io (non mi sento uno zombi). Questo ritrovarmi nelle cose che compongono la mia vita non dice solo che io sono «lì, tra quelle cose» e più o meno riesco a saltarci fuori, ma dice che trovandomi in quelle cose io mi ritrovo, trovo proprio me perché è proprio tra quelle cose che gioco la possibilità di essere me stesso.


Perché ciò avvenga dipende da due condizioni: 1. il modo in cui io mi preparo (predispongo) a quella esperienza e 2. il tipo di contenuto che quell’esperienza mi offre. L’esperienza non insegna quando 1. io sono mal predisposto ad essa e 2. è un’esperienza dai contenuti fiacchi. Se, ad esempio, un ragazzo va a fare un’esperienza missionaria confondendola con un’avventura di safari e se quell’esperienza consiste solo nel tenere pulito il giardino della missione, egli ritornerà a casa esattamente come è partito. Fare uno stage in America serve? Dipende da come io mi predispongo all’incontro con l’America e da ciò che lì incontrerò. Va da sé, allora, che l’esperienza va programmata nei suoi contenuti, preparata, monitorata e supervisionata.


E ad esperienza fatta che cosa rimane? Se, come detto, essa serve per l’appropriazione di sé, dovrebbe aprire la domanda sul futuro: «E, adesso, che cosa ne faccio di tanta consapevolezza di me? Come la uso per progettare il mio futuro?». Dovrebbe, cioè, aprirsi la domanda vocazionale, nel senso primo del termine, come domanda sul come, per il futuro, voglio disporre di me e a chi farmi dono.


Se non c’è questa partecipazione diretta in ciò che si fa, l’esperienza rimane un semplice ruolo, svolto anche con correttezza e impegno, ma terminato il quale la persona ritorna nel suo mondo di prima dopo un’amena deviazione.

 
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