Rifare i preti o i seminari?


Editoriale
Tredimensioni XIX(2022) 121-128


In occasione della prefazione di don Erio Castellucci al libro Rifare i preti. Come ripensare i Seminari di Enrico Brancozzi,1 la redazione di «Tredimensioni» ha incontrato il vescovo di Modena-Nonantola e di Carpi per condividere con l’interessato alcune riflessioni2 sulla possibilità di una riforma dei seminari. Si tratta di una istituzione che l’episcopato italiano sente di dover ripensare, sollecitato sia dalla Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis del 2016, orientata ai processi pedagogici più che alle strutture,3 sia dai vari visitatori apostolici che, mettendo a confronto differenti seminaristi e superiori, hanno evidenziato un problema strutturale diffuso e generalizzato che non dipende da problematiche contingenti di natura locale.

I seminari possono essere regionali o diocesani; questi ultimi ormai languono a causa della crisi numerica delle vocazioni, mentre i primi riescono a resistere all’erosione e offrono la possibilità di una maggior apertura sulla realtà ecclesiale al di là dei confini geografici. Qualche vescovo, tuttavia, si interroga se sia sensato per un seminarista sganciarsi per anni dalla propria diocesi e poi farvi ritorno: non sarebbe preferibile che una parte della formazione fosse a stretto contatto con la diocesi d’origine, senza avvenire inevitabilmente in un seminario? Tutto questo comporta dei non facili processi di cambiamento istituzionale che coinvolgono strutture, mentalità, tradizioni e presbiteri.4

Partire dalla fine

Un processo formativo muove sicuramente dalla storia passata e da alcuni principi che lo ispirano; allo stesso tempo si rende necessario identificare un profilo in uscita, ossia le competenze, le attitudini e lo stile che un seminarista dovrebbe acquisire per essere un prete adeguato. La sensazione è che il riferimento normale e comune sia quello del parroco, anche se si sa che la figura del prete non coincide con la sola dimensione pastorale e andrebbe dato maggior spazio alla dimensione profetica, più caratterizzante5 rispetto all’annuncio della fede, soprattutto in un contesto come quello che stiamo vivendo. 

Ad onor del vero, va detto che non di rado sono più i seminaristi ad identificarsi con certe concezioni di prete che non i loro formatori a proporre quelle immagini. La storia della Chiesa ha già conosciuto profondi cambiamenti nel definire il profilo di presbitero: il modello agostiniano faceva riferimento anzitutto al servizio pastorale, mentre i secoli successivi videro una crescita di importanza della funzione cultuale. Il prete stesso si riconosceva nel fatto di poter celebrare e assolvere ed essere chiamato a sacrificarsi per il popolo come un alter Christus. Il Concilio di Trento (soprattutto con san Carlo) riprenderà il modello pastorale, nella metafora del buon pastore che dà la vita per il gregge.

Il modello liturgico, tuttavia, non è affatto tramontato. Anzi… si trovano preti, anche giovani, che assolutizzano alcuni linguaggi antichi decontestualizzati della liturgia, dimenticandosi di appartenere al popolo di Dio, riducendo l’azione liturgica ad una sacralità esteriorizzata, esclusivamente relativa alle proprie idee, se non alla cura estetica della propria immagine: invece di spendersi in modo profetico, sembrano coltivare narcisisticamente il proprio hobby sacerdotale.

Ma anche la dimensione pastorale non se la passa meglio: non è trascurabile il rischio di approdare ad un paternalismo che muove dall’intenzione onesta di aiutare gli altri, ma giunge all’esito di abusare di un potere ottenuto per via clericale. La parola “abuso” rimanda alla pagina dolorosa che si sta aprendo per la Chiesa in molte nazioni. Gli studi sui preti abusanti hanno individuato nel “clericalismo” la radice dei comportamenti devianti, clericalismo inteso in questo caso come il sentirsi superiori agli altri in virtù di una condizione di status: ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare. Non sarà la formazione stessa dei sacerdoti, ancor oggi, a trasmettere l’idea che il prete sia superiore agli altri? Del resto è una persona che va incontro a molte rinunce: un buon stipendio, l’esercizio della sessualità, il tempo dedicato agli amici ecc. Rinunce che, in taluni casi, potrebbero implicitamente giustificare che – sull’altro piatto della bilancia – sia al di sopra degli altri. In questo contesto, il carico eccessivo di impegni e responsabilità produce una frustrazione che può essere facilmente compensata con il privilegio di sentirsi sopra e comandare. Un ulteriore elemento che favorisce tale deriva riguarda i processi istituzionali di nomina e assunzione di ruolo. In molti casi per il sacerdote non si prevede una gradualità nell’inserimento in nuovi ambienti e incarichi, ma egli ha sempre un entry level troppo alto: arriva in parrocchia e, ancor prima di conoscere qualcuno, ha già un ruolo più elevato della maggioranza dei fedeli, un po’ come alcuni imprenditori che ereditano l’azienda di famiglia, e magari capita che la portino al fallimento. Il principio evangelico, per cui chi sta sopra deve servire, viene di fatto smentito nella prassi organizzativa.
 

Il presbitero profeta

Il Vaticano II ha tentato una sintesi tra i due modelli: la teologia era di tipo cultuale e la prassi orientata al modello pastorale. A questi due munera, però, il Concilio ha anteposto la profezia, perché l’esperienza cristiana nasce dall’annuncio e dalla fede. Come la fraternità si è persa nei valori della Rivoluzione francese e nella successiva storia delle democrazie, così la profezia è rimasta in ombra in campo ecclesiale. La dimensione profetica purificherebbe le altre due e le preserverebbe da un eccessivo accentramento del potere e da un atteggiamento paternalistico. Resta il dubbio che da una parte gli attuali contesti formativi siano davvero pronti a questo cambiamento, e dall’altra i seminaristi possano rendersi conto e prepararsi ad affrontare una valanga che li investirà a seguito dell’ordinazione: una serie di strutture materiali e organizzative a cui non potranno fare fronte in modo compiuto, un servizio su più parrocchie, anche alla luce dell’età media del resto del presbiterio. 

Le strutture organizzative e materiali risultano oggi sproporzionate e generano dinamiche opprimenti su preti e comunità. In Italia, i preti e la Chiesa rischiano di dover dedicare gran parte delle energie e del tempo come gestori del patrimonio artistico nazionale: non di rado ereditano “musei” con finanze prosciugate e nulla a norma di legge. I parroci, poi, sono i rappresentanti legali  ed amministrativi di una serie di realtà parrocchiali (edifici, scuole dell’infanzia, centri di ritrovo, oratori, palestre e campi da calcio, dipendenti…); sarebbe possibile delegare ai laici, con procura notarile, buona parte della rappresentanza, ma questo comporterebbe il fatto di stipendiarli e dunque stornare le risorse dalle strutture, rendendole insostenibili. Ecco perché dire che il prete è ordinato per essere pastore rischia di essere una finzione: la realtà mostra che è ordinato spesso per fare, in buona parte, il funzionario, e il livello di dissociazione tra quanto viene proclamato e le esigenze reali è già troppo alto.

Il vescovo poli-funzionario

Se si sale sopra di un gradino e si dà uno sguardo al “funzionamento” della figura episcopale, la cultura organizzativa e le prassi peggiorano ulteriormente. Quello che la Chiesa affida al vescovo corrisponde a ciò che nella società civile è diviso su molte figure: come un amministratore pubblico (tipo un sindaco), un rappresentante dell’istituzione (come un prefetto), un giudice al tempo stesso istruttore, pubblico ministero e giudicante (che sarebbero funzioni inconciliabili nel giudizio civile), un imprenditore per opere pie, un provveditore agli studi per gli insegnanti di religione… Nella figura episcopale si concentrano e raggruppano compiti persino incompatibili tra loro. Bisognerebbe forse arrivare ad una ridistribuzione: nella prassi, nel diritto e nella teologia. In alcune forme di associazionismo (come in Agesci e AC) è già così: l’assistente non ha tutti i poteri e le responsabilità sono affidate ai laici. Ma il vescovo, in quanto plenipotenziario, è anche colui sul quale ricadono tutte le responsabilità. Per i parroci le questioni sono un poco più ridotte ma in fondo analoghe. Il problema non sono soltanto le strutture, ma anche la normativa canonica e la teologia che la sorregge, che concentrano sostanzialmente ogni potere sul sacramento dell’Ordine.

Questa situazione genera frustrazione: muri da edificare o ristrutturare, tradizioni da conservare, conflitti potenziali se si altera l’ordine costituito… portano i preti ad un sovraccarico di impegni che può sfociare nel risentimento e nella disaffezione pastorale (che si  nota a tutte le età), preferendo salvarsi in qualche nicchia di compiti specializzati, piuttosto che rimanere in un servizio pastorale non aggiornato e privo di vere priorità. Al contempo, nessuno vuol essere ricordato come colui che ha chiuso una struttura, anche se sarebbe profetico farlo. Le resistenze alla chiusura sono spesso molto forti e si radicano anche nei laici che a quelle strutture sono affezionati. Forse gli edifici e alcune prassi tradizionali non vengono abbandonati anche perché continuano a generare, con la loro maestosità, l’illusione di contare ancora qualcosa nel mondo di oggi. Peccato che drenino risorse ingenti, costituiscano una contro-testimonianza per molti e alla fine non siano nemmeno gestite con decenza. Vero è che prendersi la responsabilità di ridimensionare drasticamente le istituzioni prestigiose e le tradizioni storiche di una diocesi non piace a nessuno, così come nessuno vorrebbe passare alla storia come curatore fallimentare. La crisi finanziaria della Chiesa potrebbe essere occasione per un processo di discernimento e per scelte coraggiose; spesso invece porta ad ingarbugliare ulteriormente le cose, ad esempio quando si moltiplicano i ruoli affidandoli a consacrati e pensionati per il solo fatto che non sono da stipendiare.

Individualismo e responsabilità

Ci si interroga spesso se la condizione di disagio dei presbiteri e le forme deteriorate di culto e pastorale non provengano da un eccesso di individualismo. Questo, tuttavia, prima di essere stigmatizzato richiede di essere compreso: non è forse inevitabile per un neo-ordinato che viene inserito in un presbiterio composto largamente da anziani e stranieri e che, quando è riuscito a creare nel tempo alcune relazioni importanti, viene trasferito in altra sede, ogni dieci anni circa e a volte anche meno? A onor del vero, va detto che sono i preti stessi ad avere una visione ambivalente della fraternità e della vita comune, così come faticano a condividere realmente la responsabilità della guida pastorale della comunità con i laici. Cercano il loro sostegno affettivo, ma non costruiscono una fraternità effettiva.

Quello della responsabilità è un punto delicato, sia nel tempo della formazione sia nel momento in cui i ministri ordinati sono chiamati a rendere conto ed eventualmente a veder ridotta, in alcuni casi, la propria potestas quando non la si è usata bene. Non si potrebbe pensare che durante la formazione il giovane (sempre che tale sia) abbia dei doveri anche lavorativi sui quali possa essere valutato proprio rispetto alla responsabilità? Anche perché non si può escludere che il celibato attiri anche coloro che hanno problemi di intimità e che faticano a costruire relazioni autentiche con i coetanei e le coetanee, e che pertanto vanno in cerca di un ruolo che immaginano non richieda investimento nell’area relazionale e permetta di evitare la questione dell’intimità. Al loro confronto, persone adulte e magari sposate sembrano dare molta più affidabilità circa la capacità di tener fede alle proprie responsabilità.

Il tempo dopo e quello prima dell’ordinazione

Il trascorrere degli anni fa emergere domande che parevano assenti. Di qui il valore della formazione permanente, che riceve un’attenzione esageratamente minore rispetto a quella dedicata alla formazione iniziale. Le proposte di formazione permanente spesso sono episodiche e affidate al singolo: lectio settimanale con altri, momenti conviviali, confronti pastorali, aggiornamento culturale… sono lasciati alla libera iniziativa. Anche dove si propongono giornate/settimane residenziali, o laboratori e riflessione teologico-pastorale, è difficile che si riesca a coinvolgere la maggior parte del clero. Non così frequentemente si trovano interlocutori autorevoli che prendano a cuore con lealtà e pazienza l’ascolto dei preti e siano autorizzati e capaci di correggere, richiamare, rimproverare chi non si coinvolge nell’aggiornamento, chi non mette in discussione idee e comportamenti autoreferenziali legati ad altre epoche e chi non ha neppure voglia di dialogare e confrontarsi. A livello strutturale, poi, i ruoli sono parroco nella parrocchia o ufficiale in curia: si tratta di incarichi e ruoli individuali, che con difficoltà si mettono in gioco e si plasmano nell’interazione con altri soggetti, nella collaborazione e nella fraternità, mentre è sempre più acclarato che l’identità è un processo che si forma e si rimodella dentro ad un contesto di relazioni, di un gruppo di lavoro, di rapporti istituzionali. 
Non si possono presupporre la fede e il celibato soltanto perché uno entra in seminario: serve una iniziazione attraverso esperienze, accompagnamento e verifiche. Non si tratta soltanto di prendere tempo prima dell’ordinazione, ma è importante favorire situazioni che consentano una assunzione di responsabilità e aiutare il seminarista a cogliere il gusto di rispondere a una chiamata. Come è necessario un tempo sufficientemente disteso e strutturato per essere iniziati alla fede e alla vita secondo lo Spirito – in un contesto di formazione intensiva che favorisca la scoperta dell’incontro personale e decisivo con l’umanità di Gesù che introduce uno sguardo nuovo su sé stessi e sul mondo – così sarà necessario lasciare un tempo sufficientemente lungo per riconoscere il radicarsi del carisma del celibato per il Regno. Che non cresce di per sé nel progredire dei ministeri conferiti, del cursus honorum. L’integrazione della sessualità – con il sufficiente equilibrio necessario per sostenere una scelta di vita apostolica, anche in chi intuisce una chiamata al celibato per il Regno – ha bisogno, da una parte, di un contesto educativo e relazionale che è parte dell’identità personale compresa nella sua processualità e, dall’altra, di un esercizio e di un accompagnamento sufficientemente lungo per assumere e controllare la propria vulnerabilità.6 Sarebbe importante condividere un tempo di vita nelle comunità cristiane (in piccole fraternità con seminaristi, preti e laici) prima dell’ammissione agli ordini sacri, un tempo di servizio e di studio, vissuto nella preghiera e nella responsabilità, nel quale maturare e consolidare il carisma del celibato per il Regno nella gratuità e nella umiltà, senza ruoli direttivi. Il celibato per il Regno è passione! Se esso rimane un carisma discriminante e decisivo per l’assunzione del presbiterato richiede un tempo di consolidamento e un discernimento specifico. 

 

1 Cf E. Brancozzi, Rifare i preti. Come ripensare i Seminari, EDB, Bologna 2021.

2 Il presente articolo è opera della Redazione, a partire dal dialogo della Direzione con l’Arcivescovo Castellucci: ne conserva anche la forma, offrendosi più come miniera di spunti che come pensiero strutturato ed organico. A distanza di qualche settimana, l’11 febbraio 2022, è stata pubblicata la Lettera apostolica  in forma di «Motu proprio» del Sommo Pontefice Francesco, Competentias quasdam decernere che al momento del confronto non era neppure immaginabile.

3 Cf in questo numero l’articolo di  E. Parolari - A. Peruffo,  Oltre la cornice: un’interpretazione della Ratio Fundamentalis, pp. 137-148. 

4 Cf in questo numero l’articolo di E. Gnani, E’ possibile rinnovare le istituzioni?, pp. 129-136.

5 Cf in questo numero l’articolo di F. Rinaldi, Prete o sacerdote? Risvolti formativi della ricerca teologica di Romano Penna, pp. 160-170.

6 Cf in “Letto per voi” di questo numero l’articolo di L. Balugani sul libro di S. Guarinelli, Omosessualità e sacerdozio, pp. 214-222.

 

 

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