Sinodo: c'è un tempo per resistere e un tempo per cambiare


Editoriale
Tredimensioni XIX (2022) 8-12


Siamo in un cambiamento d’epoca e non solo in un’epoca di cambiamento! L’espressione è ormai entrata nel nostro vocabolario, almeno in certi ambienti. A detta di molti la situazione pandemica non ha fatto altro che accelerare questo processo, per il quale ci troviamo un po’ spaesati perché stiamo sperimentando la debolezza di tante nostre proposte che sembravano funzionare.

Una delle espressioni che più mi ha fatto pensare e che ho trovato quanto mai significativa dice più o meno così: in cambiamenti epocali non è sufficiente resistere e non ha senso parlare di resilienza… ma si richiede la capacità di essere generativi![1]  L’affermazione ha valore sia a livello personale sia a livello di istituzioni, chiamate a diventare generative pena la loro morte più o meno rapida. Non si tratta di essere pessimisti o gufi di sventura: è nella natura delle cose. La crisi – ogni crisi – richiama la precarietà di ciò che è umano eppure in essa ci può essere la spinta, seppur dolorosa, per un’azione di rinnovamento. La storia è ricca di insegnamenti a questo riguardo. Si tratta allora di produrre risposte innovative e non semplicemente di ripetere in modo più o meno aggiornato ciò che si è sempre fatto: servono elementi di discontinuità, di opportunità che solo la crisi può offrire!

In più occasioni il Papa ci ricorda il rischio di trasformare certe nostre realtà in musei grigi, senza bellezza e senza passione: è la psicologia della tomba, che spegne e uccide ogni piccolo germoglio di vita. «Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (EG, 49). 

Aprire gli archivi, non guardarsi allo specchio, dare spazio e attenzione a ciò che arriva dal basso, dalla gente, dalla strada, dall’ordinario della vita delle persone: atteggiamenti che per papa Francesco costituiscono il cuore dell’esperienza sinodale che sta promuovendo con insistenza alla Chiesa. Si tratta di un’occasione non tanto per ripetere formule antiche ma per assumere uno stile nuovo che, intrecciando l’incontro delle persone con la forza vitale dello Spirito, sappia rinnovare in profondità il modo del nostro essere Chiesa. 

Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da sé stessi per unirsi agli altri fa bene (EG, 87).

C’è tanta concretezza in queste affermazioni del Papa, e per alcuni aspetti ne sentiamo contemporaneamente fascino e paura. Se volessimo riassumere in una parola questa via potremmo dire che si tratta di imparare di nuovo a “fare insieme”. 

“Insieme” è un’esperienza di relazioni generative dove il centro non è un soggetto solitario che ha in sé le risposte da tutti attese, ma un “noi” che racchiude la necessità di una alterità che scombini le certezze che ci siamo costruiti. Se si è pieni di sé e delle proprie idee non ci sarà spazio per generare, ma solo per uno sterile ripetere ciò che si è già fatto.

E’ ovvio che tale processo comporta movimento, imprevisto, precarietà, cadute inevitabili. Chi genera non conosce già il risultato. Avviare un’azione di rinnovamento istituzionale non è un’operazione che permette di mantenere tutto sotto controllo: l’imprevisto del generare, infatti, non è inatteso ma parte integrante del processo in atto. Per questo, in analogia con il generare alla vita, sarà quanto mai utile imparare a prendersi cura del nuovo con pazienza e fiducia, come il Creatore che accudisce l’Adam fragile bisognoso di una veste dignitosa.

Se volessimo concretizzare ulteriormente dovremmo dare alcune priorità:

-       Investire in conoscenza. Generare il nuovo significa conoscere in modo non stereotipato (qualcuno parla di “pensiero divergente”) la realtà. Chi ci può aiutare a vedere le cose in modo meno ripetitivo? Chi ci può aiutare a pensare alla società, alla Chiesa, alle nostre organizzazioni in modo nuovo? Se c’è una via nuova da percorrere essa va trovata al di fuori delle nostre sicurezze, accettando il rischio dell’incertezza.

-       Domande scomode. Quante volte nei Vangeli Gesù si propone come colui che fa domande scomode che spingono lungo un crinale, lasciando pochi appigli ai suoi interlocutori. Detto in altri termini, si potrebbe parlare di piccole provocazioni, di “piani inclinati” apparentemente innocui ma capaci di creare delle discontinuità rispetto al normale fluire della vita delle nostre strutture. “Piccolo” non è mai sinonimo di inutile! Piccolo – anche in natura – è spesso immagine di forza dirompente: pensiamo al germoglio che, spinto dall’attrazione per la luce vitale del sole, riesce a rompere la dura terra. Piccolo rimanda a quella capacità di cura e di incontro fra realtà diverse che insieme diventano vita.

-       Relazioni di fiducia. Il generare è possibile nella misura in cui la relazione con l’altro è improntata sulla fiducia; non la possiamo dare come presupposto di partenza quanto piuttosto come frutto da far maturare con pazienza. Quali sono le esperienze generative di stima e fiducia vicendevole? Quali invece avvelenano il pozzo dal quale dovremmo attingere l’acqua che ci disseta? Non si tratta di accusare qualcuno, quanto piuttosto di provare a guardare sé stessi e il proprio operare.

-       Emozioni calde e coraggio. Ogni processo di cambiamento genera emozioni diverse e per alcuni aspetti contradditorie. Prendere atto di ciò che succede dentro di noi è parte integrante di ogni strada di rinnovamento. Paure e incertezze, sogni e speranze, dubbi e attese. Emergono così in modo nuovo i tanti volti della fragilità personale e comunitaria: «Siamo in pochi… non ci riusciamo, ci penseranno gli altri… sono ormai vecchio… si è sempre fatto in questo modo…». Rimane attuale la frase del don Abbondio manzoniano: «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Dal punto di vista etimologico il termine “coraggio” deriva dal latino cor habeo, espressione composta da cŏr, cŏrdis (“cuore”) e dal verbo habere (“avere”), quindi: “avere cuore”.  Il coraggioso è una persona che nelle diverse situazioni sa porsi con la passione del cuore e la forza degli ideali; è uno che legge la realtà che gli sta davanti senza rimanerne schiacciato, arrivando così ad una decisione che, per quanto difficile, cercherà di portare a termine. “Avere cuore” richiede capacità di ascoltare sé stessi, nel profondo, e contemporaneamente il cuore dell’altro, con le sue dinamiche di paura e desiderio. Si potrebbe anche dire che il coraggio è antidoto alla mediocrità, al ripiegamento, all’omologazione, alla rassegnazione, all’adattamento passivo, alla morte dei sogni più belli che ognuno porta dentro. Si può crescere nel coraggio nella misura in cui si coltivano gli ideali di una vita spesa per qualcosa, o meglio per Qualcuno per cui valga davvero la pena di vivere. Una organizzazione diventa coraggiosa quando sa riscoprire il motivo per cui esiste, che non è tanto preservare sé stessa ma rilanciare il sogno che l’ha fatta nascere.

C’è una pagina del Vangelo che da qualche tempo mi sta facendo pensare: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto» (Gv 15, 1-2). Ci sono tralci da tagliare perché non portano frutti, ma ci sono anche tralci da potare perché portino più frutto. Semplice parlare dei primi… ma circa i secondi la questione è notevolmente più complicata! E portare più frutto non è solo nella logica della quantità ma di una qualità evangelica: portare più frutto vuol dire saper generare il nuovo! Siamo capaci di lasciarci tagliare/potare anche in quelle cose a cui teniamo maggiormente? Siamo capaci di prenderci cura delle nicchie di novità che nascono nei nostri ambienti senza avere la fretta di omologarle al già noto, ma favorendone la crescita provocante per tutta la struttura? Siamo capaci di vedere il tempo che ci è dato da vivere non nella logica del “resistere nonostante tutto” bensì in quella della profezia, richiestaci non solo come singoli ma anche come comunità? 

Forse questa è la sfida sinodale che ci è data da vivere. Ne avremo il coraggio, il cuore, la libertà, la visione necessari?
 

[1] Cf A. Orsenigo, La generatività dentro le istituzioni, in «Animazione sociale», 324 (2019), pp. 19-33.

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