Teologia cercasi...


Gli anni passano e le cose cambiano….. 

Oggi, parlare di interdisciplinarietà dei saperi non è più tanto di moda. La parola stessa sa di antico. L’entusiasmo si raffredda ulteriormente se parliamo dei rapporti fra psicologia e teologia. Teologia come teologia sistematica, dogmatica, fondamentale, sacramentaria, morale e spirituale e non solo come teologia «applicativa» per la pastorale o catechesi. 

A meno che all’attenzione non si impongano scoppi eclatanti di scandali, comportamenti patologici dei preti, crisi da panico dei seminaristi…, parlare dei rapporti fra psicologia e «scienze sacre» non è ciò che avviene nei nostri incontri presbiterali o nelle nostre pianificazioni pastorali. A meno che non si chieda alla psicologia di darci nuovi «strattagemmi» per mantenerci vicino la gente ormai distratta alle nostre prediche. Nelle aule di teologia dei seminari la psicologia fa ancora capolino perché «un po’ di psicologia ci vuole» e non fa male sapere quando i bambini si chiamano bambini, poi adolescenti e poi perché così presto si drogano e non vengono più in chiesa. 

 

Ma quando l’indagine psicologica si fa più raffinata ed entra nelle dinamiche dell’esperienza spirituale, quando addirittura va ad interessarsi di argomenti da sempre di pertinenza della teologia quali Grazia, atto di fede, rivelazione, natura della chiesa, quando chiede risposte teologiche di cui ha bisogno ma che siano anche digeribili dai suoi schemi, allora gli sguardi dei teologi si incupiscono. Insomma, al teologo - quello dogmatico, della teologia alta - la psicologia non interessa molto e se si ritrova a conversare nei corridoi della scuola con il docente di psicologia (a volte, perfino donna!) ha paura di essere preso per un teologo di seconda categoria, non «scientifico», a livello dei compilatori di sussidi. Invece, qualche decennio fa ci sono stati psicologi e teologi che volentieri conversavano fra loro: pensiamo agli anni di Drewermann (che riteneva suo punto forte potersi definire teologo e psicoanalista) o ai nomi, di tutt’altro tenore, di Ricoeur o Guardini. 

Contrariamente a qualche decennio fa le tensioni portano più a distanziarsi che ad incuriosirsi. Senza dibattito ma nel silenzio. Nonostante le dichiarazioni di principio, i contributi psicologici alla riflessione teologica (e non solo alla pastorale) sono abbastanza dimenticati da una teologia che, nel suo inconscio, ritiene ancora che la psicologia non sia di grande utilità per scoprire nuovi aspetti del mistero dell’uomo e di Dio. 

 

C’è stata una stagione culturale, aperta da quel grande evento mondiale (non solo ecclesiale) che è stato il Concilio Ecumenico Vaticano secondo, segnata da un grande desiderio d’incontro, a vari livelli, a partire da quello tra la Chiesa e il mondo d’oggi. È stata una stagione feconda, anche se assieme caratterizzata da tutte quelle resistenze e rigidità che scattano naturalmente dinanzi al nuovo. Proprio in quella stagione nacquero anche i primi tentativi di dialogo tra due settori che si erano fino ad allora discretamente ignorati: psicologia e teologia, psicanalisi e spiritualità. Fu un cammino lento, non privo d’incongruenze e contraddizioni (chi corse troppo avanti e chi fu troppo frenato, chi propose sintesi affrettate e confuse e chi temette un’invasione indebita e pericolosa delle scienze umane…), ma la strada alla fine s’aprì. Si incominciò di fatto a inserire la psicologia nei curricula di teologia del futuro sacerdote; la psicologia entrò come facoltà nelle università pontificie; si iniziò a fare uso della psicologia nei cammini formativi (con finalità pedagogico-formativa e non solo diagnostico-preventiva). 

 

E oggi? Evidentemente parliamo di sensazioni, forse valide solo per la vecchia Europa, ma che in realtà sono più che sensazioni perché occasionate da prassi monitorate, contatti e confronti. L’impressione è questa: alcune concessioni alla psicologia sono già state date, le posizioni sono ormai acquisite e circoscritte, un certo dialogo ormai è avviato, certe prassi si sono affermate. Ma la riflessione teorica sembra non aver fatto grandi passi. Con il rischio che la psicologia torni ad essere la moderna ancilla theologiae (come un tempo era stata la filosofia), solo qualcosa che serve per capire in tempo possibili devianze future, per rendere più «moderna» la relazione d’aiuto, più appetibile il sacramento della confessione e quelli dell’iniziazione cristiana. Se poi si procede a collegare il sapere psicologico e teologico, lo si fa con la aspettativa che il primo confermi e supporti sempre il secondo. Insomma un rapporto funzionale, politicamente corretto, teologicamente sostenibile, e poco più.

 

Avvertiamo anche un’altra sensazione. Sul versante di buona parte degli studiosi di psicologia, della stragrande maggioranza degli psicoterapeuti in azione (inevitabilmente i nuovi maestri delle coscienze), di responsabili delle organizzazioni (persino industriali ed economiche) c’è un grande interesse nei confronti di questo dialogo, una vera e propria sete di teologia (anche se molti non ne sanno pronunciare il nome perché non sanno di che cosa si tratti). Interesse intellettuale ma soprattutto convinto di poterne trarre grande vantaggio per il funzionamento del proprio lavoro. Quegli argomenti interdisciplinari, psico-teologici, che fanno distorcere tanti nasi ecclesiastici scivolano graditi nell’animo di queste persone «lontane», quasi attesi ed aspettati per l’apertura di prospettive e orizzonti che essi comportano. Diceva un importante imprenditore ad un consulente psicologo debitamente preparato nella mentalità interdisciplinare e che lui aveva chiamato a supervisionare il lavoro dei suoi dirigenti: «rendersi conto che anche la mia fabbrica è presenza, come arcanamente dite voi, del Mistero ed essere aiutati a vedere anche con gli occhi dei sensi che anche noi ci possiamo trascendere - ma che linguaggio usate!! - senza dover iniziare alla mattina con la Messa cantata fa collaborare meglio tutti e anche guadagnare più soldi!». Ecco, per noi invece, una spiritualità senza Messa non ci pare più spiritualità.

Si può dire la stessa sete di apprendimento dal versante teologico? Sembra lecito qualche dubbio: con il passare degli anni, infatti, abbiamo assistito ad una sempre maggiore apertura teologica da parte della psicologia e ad una persistente benevola - e addirittura empatica - neutralità da parte della teologia. 

 

Ci dispiace per l’isolamento in cui si va a mettere la teologia (pensiamo ad esempio alla teologia morale). Ci dispiace anche per noi psicologi interdisciplinari perché riflettere e agire sull’uomo, come la nostra psicologia fa, ha bisogno della teologia. La cura psicologica - ma anche la stessa vita ascoltata in profondità - ci consegna (certo! Non in modo così esplicito e così immediato) che vivere nel mondo e vivere in Dio sono due aspetti che si presuppongono e si rafforzano. Ma è un intreccio che va pensato e ripensato con la teologia, per situarlo a un livello molto più profondo, epistemologico e non meramente funzionale, lungo un continuume non sulla base di percorsi paralleli e ruoli complementari, attraverso un procedere il più possibile congiunto per quanto pieno di derive e di debite distinzioni. 

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