Il cinismo degli illustrissimi


Non è poi così raro imbatterci in personaggi illustri che ritenevamo garanti della giustizia e della moralità e che invece si scopre essere coinvolti in azioni al limite, se non anche al di fuori, della moralità. Lo sconcerto aumenta se si tratta di ecclesiastici oppure di laici che non si sa per quali vie siano giunti ad occupare posti importanti nell’organizzazione ecclesiale.

 

Viziosi? Intriganti? Delinquenti...? Forse. Ma soprattutto cinici.

 

A farli diventare dei cinici ha contribuito anche la parte di loro stessi occupata dai valori. Sarebbe esagerato dire che la fede (o, più in genere, la idealità) rende cinici, ma non lo è ipotizzare che il cinismo sia anche l’inconveniente di una fede collocata male all’interno della personalità del credente. Collocata male, nel senso che le regole della fede e quelle della realtà non s’incrociano. Il cinico le riconosce entrambe ma non le collega fra di loro. Da una parte è realista e dall’altra crede nei suoi ideali. È mondano nel mondo e spirituale nella spiritualità, paladino dei principi di democrazia in parlamento e fautore di favoritismi nel suo collegio elettorale. È difficile che uno scettico, uno senza valori, un materialista diventi cinico. Semmai diventa un depresso, un rassegnato, un deluso. Il cinico, invece, resta estremamente operativo. Il cinismo è una malattia dei personaggi illustri, «paladini» dei valori. Non colpisce i poveracci e gli umili.

 

Per il cinico l'idealità interiore e la realtà esterna sono lontane milioni di chilometri. Quindi non c'è da stupirsi se incontriamo personaggi pubblici di rilievo in agenzie educative moralmente valide che parlano bene ma razzolano male. Si potrebbe dire che il cinismo, che sembra un’esagerazione del principio di incarnazione, è in realtà un annullamento di tale principio: i valori restano ma vengono custoditi, privi di qualunque corpo, in un qualche recipiente etereo, distaccato dalla realtà. Lì essi sono potentissimi, assoluti, puri, e quindi totalmente ininfluenti. In una parola, innocui. È per questo motivo che le radici del cinismo cominciano già ai tempi dell’Università (o della formazione): ci si è abbeverati di alti valori, senza averli intrecciati con la storia concreta e con gli affetti (dis-)ordinati. Bibbia e giornale sono sotto le due ascelle, ma non si incontrano mai.

 

Il cinico è un personaggio dal forte impegno civile e dall’ineccepibile rigore morale e questi riferimenti rimangono in lui dei punti forza. Ci crede ancora, insomma. Non è uno che «ha venduto l’anima al diavolo». È uno che prova e ha provato a migliorare la realtà. Ma - e qui è il suo difetto - prova a migliorarla senza andare ad agire sui connotati più profondi della realtà e senza farsi guidare dai dettami dei suoi valori. Nel suo intimo inconfessato è convinto che la realtà è immodificabile e che i valori sono dei «come se»: non sono loro a trainare il mondo ma vanno sostenuti perché altrimenti il mondo crolla.

 

Il cinico non riesce a colmare il deficit di connessione fra il mondo dei valori e quello reale. Da una parte, nutre una grande sfiducia nella efficacia pratica del valore come potenza rigenerativa della realtà e dall’altra lui stesso non è capace di misurarsi con la complessità del reale: se le leggi che governano la realtà sono immodificabili, perché andare a scrutarle in profondità? Vede solo le cose come sono e non come dovrebbero essere: un cinismo a volte giustificato come una forma di flessibilità. Ma è una flessibilità patologica. Se la flessibilità positiva permette di sospendere la negatività dello scontro tra idealità e realtà, magari alla ricerca di una più saggia costruttività, il cinico sospende tale scontro, facendo scorrere idealità e realtà su binari paralleli. Può allora accadere che il suo agire realista, lasciato a se stesso perché privo di discernimento valoriale, gli prenda la mano e lo trascini in un vortice di illegalità di cui si rende conto solo alla fine.

 

Il cinismo è una «buona» forma difensiva contro la durezza della realtà. O meglio, contro l'inevitabile scontro-incontro tra il principio di idealità e quello di realtà. È una sorta di alleggerimento di tale rapporto, per renderlo meno duro da affrontare. Il cinico ha ideali che mancano di fecondità, non entrano come piccolo seme nel terreno che, invece, continua a seguire le sue leggi. Verso la storia e la società ha uno sguardo di disincanto (è «sgamato»): di fronte ad avvenimenti o incoerenze che, una volta, sfociavano nello scandalo, lui non si fa un esame di coscienza ma coglie il consiglio di essere scaltro.

 

Il deficit di connessione fra idealità e realtà si esprime anche nella sospensione della relazione fra il linguaggio e la realtà. I discorsi del cinico sui valori sono belli ma svuotati dei loro rilievi più impegnativi, fatti di parole usate come strumenti di teatro anziché di sapienza e comunque incapaci di avviare il circolo fra idee e realtà. A prima vista questi personaggi danno l’impressione di essere dei testimoni ma ad un riascolto più attento delle loro parole si vede che testimonianza, istinto di conservazione e pacchiano realismo parlano lo stesso linguaggio. Per la prassi il valore non funziona ma la prassi impone che si debba dire che funziona. Provate a fare attenzione ai dibattiti televisivi: un gruppo di cittadini porta un problema concreto e il politico replica con affermazioni di principio. I cittadini restano a bocca asciutta ma lui ha fatto una gran bella figura.

 

I vari monsignori intrallazzatori e procacciatori di affari non sono ironici ma cinici. L’ironico ha perso la fede o forse non l’ha mai avuta e guarda la realtà con la convinzione che tutto è relativo e passa. Perciò, di solito è anche pigro perché, tanto!, la vita decide lei e di solito si prende gioco di lui. Il cinico invece è scaltro, vuole lui prendersi gioco della vita. Qualunque cosa gli possa accadere lui continua a funzionare. L’ironico alza le spalle e se ne va per conto suo. Lui invece approfitta di ogni buco per infilarcisi dentro. Ha il sonno leggero: si sveglia appena un’occasione d’intrallazzo lo chiama. Le sue abilità «imprenditoriali» non si specializzano su un settore ma dilagano in vari campi: potere, denaro, politica, ville, gioielli, antiquariato, modernariato, iniziative caritatevoli e frequentazioni mondane… La coscienza continua a parlargli di altruismo ma lui è più convinto che in questo mondo nulla si dà e si ottiene gratis. L’ironico non sente più il profumo dei fiori. Il cinico, invece, lo sente e subito va in cerca della bara.

 

Cinici non si nasce ma si diventa. Lo si impara da maestri che sono cinici ma ancora meglio da quelli che a scuola battono solo sul tasto degli ideali e nella vita fanno capire che bisogna farsi furbi. 
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