Non di solo gender vive la Chiesa


Editoriale
Tredimensioni 12(2015) 2,228



Recentemente stanno proliferando dibattiti, articoli, conferenze sulla cosiddetta «ideologia del gender». È bene sapere di che cosa si tratta e anche noi lo facciamo, proponendo un articolo proprio in questo numero. 

Purtroppo, questo tema (già confuso in sé per lo stesso linguaggio che usa, le classificazioni cliniche che fa, l’uso non univoco dei termini e le differenze concettuali che introduce) si presta ad essere un grande contenitore dentro cui cade di tutto: omosessualità, rivendicazione dei diritti civili di ogni genere, liberazione gay, lotta per le libertà, contestazione della morale ecclesiale, pluralismo e tolleranza, bacino di voti elettorali, metro di misura per valutare la modernità dei partiti e dei governi… E così, il tema infiamma le menti e allerta anche gli uomini di chiesa. 

La prima cosa che dobbiamo chiederci è se l’azione non stia precedendo la riflessione, cosa che generalmente non aiuta. Crediamo che sia necessaria un po’ di calma. Non dobbiamo allarmarci subito. Il nocciolo dell’ideologia del gender è piuttosto semplice: il sesso non è un dato di natura ma una scelta da decidere in autonomia. Nulla di nuovo: si tratta dell’annoso problema del rapporto fra natura e cultura che l’ideologia del genere ha tirato fino ai suoi estremi paradossali di negare i limiti imposti dalla natura; operazione che lascia la psicologia scientifica, ma anche quella filosofia che non si elabora sulle piazze ma nei luoghi di riflessione, piuttosto scettiche e disinteressate. 

 

La gente semplice è chiamata a schierarsi pro o contro senza sapere bene per quale causa deve schierarsi. Quello che sa è che sul suo essere «pro» o «contro» non ci gioca la sua cognizione di causa ma la sua dignità come persona, genitore, insegnante, cittadino democratico, credente o miscredente. Chi sarà «pro» sarà considerato da alcuni spirito aperto e da altri picconatore della morale. Se «contro», antiquato da alcuni e araldo coraggioso per altri. E così, se malauguratamente si andrà al referendum, si farà la conta di quanti sono gli scellerati e quanti i ragionevoli, a seconda del partito di appartenenza di chi commenta i numeri. 

Non di rado si tratta di un «dentro-fuori» che mette il genitore o un parroco con le spalle al muro, della serie «se sei un buon cristiano non puoi non firmare» oppure «guarda che vescovi e associazioni cattoliche appoggiano l’iniziativa: non vorrai forse tirarti indietro?», «vuoi forse che tuo figlio incontri un transessuale senza che tu nemmeno l’abbia saputo?». E dalla parte avversa: «se scopri che tuo figlio è gay, vuoi lasciare che venga discriminato e per angoscia si uccida?», «non sarai per caso anche tu contro la libertà di pensiero e di espressione!». E così il genitore si trova sotto l’occhio del giudizio e va in confusione. 

Capita per il gender come capita per altre tematiche fumose: anziché mettere un tavolino in una sede scientifica, lo si mette per strada con uno slogan e due cartelli e si viene fermati da alcuni tipi che chiedono di firmare delle petizioni. Il vero dilemma per il passante è che non capisce bene per che cosa sia richiesta la sua firma. Sempre più frequentemente un genitore viene contattato da altri genitori per firmare petizioni pro o contro l’ideologia del gender ma se chiede che cosa è neanche l’altro genitore lo sa. Talvolta viene chiesto ai dirigenti scolastici di segnalare iniziative ritenute pericolose (ma il pericolo che nome ha?) oppure per parlare del gender (ma per dire che cosa?). 

 

Basta sfogliare un qualsiasi libro serio di psicologia dello sviluppo, psicologia della personalità umana, psicologia clinica, dinamica, psicoterapeutica per accorgersi che lì si parla di genere senza sentire l’esigenza di giustificarlo. Se ne parla come punto di partenza dato, come qualche cosa di assodato e di incontrovertibile che, semmai, va assunto ed elaborato nel suo intreccio fisico e psichico. Non elenca come problema vitale per tutti il dilemma di accordare il fisico con la psiche. Non modula una teoria dello sviluppo sui casi particolari che semmai affronta come casi di soccorso e non come prova di teorizzazione. Per questo la letteratura scientifica non è interessata ad entrare nel dibattito attuale su chi deve decidere che uno è maschio o femmina. Sa che la natura esiste ma che non è tutto, sa che la cultura esiste ma che non è tutto, sa che non è scientifica la questione se a decidere sia solo l’una o l’altra ma semmai come i due poli si rapportano.

I grandi maestri della psicologia sanno anche bene che il sesso biologico non è l’unica componente a fare di una persona un uomo o una donna. Del resto, tanti anni di filosofia e di cristianesimo hanno contribuito a far tramontare un riduzionismo materiale/animale dell’uomo. L’uomo è più del suo corpo, più della sua anatomia ma anche più della sua cultura e ogni dato di partenza (biologico o culturale) chiede di essere accolto dall’altro nel quadro complessivo della personalità: il biologico collocato nel tempo e nella storia di ciascuno e la cultura in ciò che è dato per natura. La sessualità non differisce in questo. 

 

Perché il ruolo della cultura e della scelta soggettiva, oggi, diventa improvvisamente minaccioso? Chi osa tornare indietro ad un determinismo morfologico, per cui pene e vagina sono sufficienti a definire un maschio ed una femmina? Come non prendere atto che l’educazione dei genitori, esperienze più o meno traumatiche o i dati stessi di natura non possano arrivare a sconvolgere il processo identitario fino a creare una frattura fra sesso dato e sesso interiormente sentito? 

Il pericolo, semmai, dell’ideologia del gender è che - avendo portato la dialettica natura e cultura all’estremo paradossale di negare la natura – fa credere come possibile la fantasia di un’esistenza che si plasma da sola senza restrizioni: nulla è precostituito. 
 

Non dimentichiamo che si tratta di un’ideologia e non di una teoria scientifica che per natura sua deve corredarsi di prove, fare affermazioni che siano verificate, verificabili anche in futuro, valide anche se cambiano le circostanze, ed estensibili ad un universo il più ampio possibile. L’ideologia del genere, invece, è cangiante e offre un menù di scelte sempre più ricco: maschio, femmina, gay, bisessuale, cross-gender, trans-gender, e - new entry - gender illusionist, mid gender, autoginefilia, queer…. Prossimamente la lista aumenterà. A rigor di logica gender questa ideologia dovrebbe anche sostenere che una o l’altra scelta non dovrebbe essere definitiva ma a tempo e che ognuno deve mantenersi la possibilità di cambiare ancora scelta perché ogni definitivo è già un limite alla libertà: che libertà rimane se perdo il diritto di definire e ridefinire la mia identità di genere lungo il corso della mia vita?
 

«Ma noi abbiamo il dovere di metterla in discussione, ovunque si presenti. Dobbiamo ascoltare il monito di Papa Benedetto e rifiutare di arrenderci alla teoria di genere in qualsiasi forma essa si presenti. Dobbiamo difendere il nostro diritto a parlare, a descrivere con precisione la realtà, a dichiarare che il matrimonio è l’unione di un uomo e di una donna e che i figli crescono meglio quando vengono cresciuti dai loro genitori biologici sposati; dobbiamo difendere il nostro diritto a chiamare uomo un uomo e donna una donna, anche se vogliono essere dell’altro sesso. Facendolo, possiamo aspettarci delle persecuzioni. Possono sembrare piccolo cose: un pronome qua, un nome là, ma le persecuzioni cominciano sempre dalle piccole cose. Ma arrendersi alle menzogne non è una piccola cosa e noi dobbiamo essere saldi. Le teorie di genere sono il prodotto di anime alienate dalla realtà delle proprie nature, anime che vogliono coinvolgere gli altri nella loro alienazione. Non stiamo promuovendo una visione ottusa e superata. Siamo i difensori della realtà». (Dale O’Leary)

La domanda che sorge è se ci sia bisogno di tanta foga per obiettare. Perché rimettere la questione al suo giusto posto con il contrapporsi subito, con il costruire un’ideologia contro, che inevitabilmente va a rinforzare l’ideologia nemica e ne ricompatta le sue differenze interne e realtà frammentate? C’è bisogno di un nemico da combattere? E siamo sicuri che un nemico del genere sia capace di ricompattare anche le nostre posizioni cattoliche? Non nasce il dubbio che un argomento come questo possa facilmente diventare la coperta che copre il nulla?
 

Di questo argomento se ne parla più all’interno della chiesa che fuori. C’è gente che ha conosciuto la teoria del gender e le sue svariate offerte di identità solo perché ne ha sentito parlare in chiesa. Perché tanto interesse ecclesiale? 

Sarà per l’amore italico dell’esterofilia, sarà perché certi argomenti bucano lo schermo, sarà per la speranza di riguadagnare uditorio, sarà perché i conferenzieri vi trovano la possibilità di dispensare le loro considerazioni e far conoscere il loro nome, sarà per l’illusione di sentirsi in questo modo presenti nel mondo? Sarà ancora il tentativo di portare alla luce argomenti che altrimenti passano in maniera subdola andando a corrodere, goccia dopo goccia, le coscienze? Sarà la nostalgia per il secolo delle ideologie, quando anche la chiesa cavalcava grandi battaglie culturali contro divorzio ed aborto? A parte lo scacco subito, le coscienze, in quegli anni, si erano scosse perché la questione in palio era molto chiara e toccava tutti: vita e amore. Qui la questione è molto più evanescente, non trova degli antagonisti all’altezza, le distinzioni e lo stesso linguaggio cambiano sempre e, così, sembra più un chiacchierare in salotti impolverati che non il risvegliare coscienze. 

Sul tema del gender, le coscienze si scuotono solo momentaneamente, solo a livello emotivo e solo qualche volta, ad esempio all’idea pittoresca di invitare in classe o all’assemblea d’istituto un transgender. Poi tutto torna in una sorta di torpore collettivo perché si parla di altri, di quelli che sono diversi e la riflessione di come io, proprio io, mi costruisco la mia identità di genere, di come io vivo la mia mascolinità/femminilità resta del tutto ignorata. Probabilmente alcuni o molti avvertono un disagio relativo al proprio corpo, la difficoltà ad assumere ruoli sociali stereotipi, le complessità nell’approcciarsi all’altro sesso, ma non è certo questa modalità a tirare fuori il problema.

Non ultimi, di gender parlano i vescovi. L’articolo sul gender, in questo numero, lo scrive un vescovo ma è stato per anni psicologo, psicoterapeuta, insegnante di morale, di psicologia dello sviluppo e psicopatologia, abituato - dunque - a non fermarsi ad un uso della psicologia evolutiva come qualche cosa tutt’al più da imparare in maniera funzionale all’azione catechistica e allenato a muoversi a livello di persone e non di ideologia.

 

Se i giovani sono affascinati da questa tematica, non è per il suo contenuto ma perché la declinano in un modo diverso dall’interpretazione che ne danno quelli del «pro» e quelli del «contro». 

Non sono realmente interessate all’oggetto della discussione, ma alla sua portata simbolica. Lo vedono come il tema della libertà di scegliere e di determinarsi. Come recentemente è successo per il referendum in Irlanda, assai probabilmente i giovani fanno anche di questa tematica del gender, l’emblema della libertà da ogni forma di vincolo, che nel nostro tempo ha nella sessualità il suo campo più promettente. Si appassionano a queste tematiche e senza remore scendono in campo per sfilare a favore di diritti ai quali non sono interessati se non per la loro valenza di libertà. Non è la sorte dei transgender che li muove ma piuttosto una sorta di tacita protesta: perché ci deve sempre essere qualcuno che ci deve insegnare qualcosa sulla sessualità? Perché mai qualcuno dovrebbe ricordarmi che nella vita esistono dei limiti che si possono varcare solo a prezzo di grandi sofferenze? L’esigenza, del tutto legittima, di libertà si aggrappa a tutto ciò che sembra prometterla. La questione del gender infiamma i giovani che la contemplano come trofeo contro i limiti dell’esistenza.
 

Più aumentano i dibattiti contro il gender e a difesa della famiglia, più ci si accorge che referendum, exit-pool, sondaggi e opinione pubblica prendono una posizione del tutto antitetica a quella della chiesa. Domanda: non è che l’ideologia del gender esista meno di quanto certuni pensino, ma che in realtà tragga rinforzo proprio dal fatto che se ne parli in continuazione? Su questa strada, un giorno apparirà un novello ideologo del gender che cavalcherà l’onda di un’improvvisa notorietà difficile da rifiutare. Ed è facile immaginarsi uno sparuto gruppo di neo sessantottini, ben lontani dai loro predecessori, che protesterà contro l’illiberalità e l’ottusità della chiesa, a sua volta privo di una caratura culturale degna di questo nome. Facile immaginarsi slogan «ad hoc» e nuove fogge della «gender-freedom» . Non stiamo proponendo l’omertà del silenzio, ma parlarne per quel tanto che basta e in luoghi più adatti del banchetto sulla strada o delle sale parrocchiali. 

 

Come sempre la chiesa si fa carico di quelle che sono gioie e speranze, ma anche tristezze ed angosce dell’uomo di oggi. Resta difficile da capire a quale di queste categorie la discussione sul gender appartenga. Forse genera angoscia, ma solo in coloro che avvertono in se stessi una lacerazione; di certo genera tristezza, in quei genitori ed amici che vedono una persona cara soffrire. Dovrebbero essere queste persone, più che l’ideologia, ad infiammarci il cuore. 

Ma il vangelo in tutto questo disquisire ideologico dove va a finire? Improvvisamente infatti, a volte in maniera maldestra, la questione antropologica sopravanza quella evangelizzatrice: siccome non c’è più una buona notizia da annunciare, ecco che ci si butta su un’umanità non negoziabile da difendere. Alcuni nella chiesa chiamano alle armi, improvvisano trincee e si ritrovano a combattere una guerra che interessa davvero a pochi. Poi, nel frattempo, cambiano le leggi, con effetto domino un paese tira l’altro e noi ci sentiamo «K.O», mentre (più furbescamente) qualche lobby approfitta di questa situazione per potersi garantire alcune legittimazioni impensabili fino a qualche tempo fa.

Se dall’ideologia passassimo alle persone il tema diventa quello di vedere come è possibile lanciare un ponte che agganci chi si trova in certe situazioni alla promessa di Gesù di dare un’esistenza ricolma della sua salvezza, in qualunque situazione. Per tutti, al di là che siano «pro» o «contro», potremmo approfittarne per annunciare il gender secondo noi: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna; perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Non è buttarsi nel fumo delle parole. Se le sappiamo calare nella concretezza (e non possiamo saperlo fare senza una psicologia in stretta sinergia con il vangelo) tutti, sicuri o dubbiosi della propria identità, in quelle parole vi troveranno soccorso.

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