Il mentale, il sociale e le nuove violenze


Editoriale
Tredimensioni 12(2015) 2,116



In psicologia clinica sempre più la salute mentale e la sofferenza psichica sono og­getto di un discorso sul «disagio nella civiltà» che si riassume nel­la duplice idea secondo cui il legame sociale s'indebolisce mentre per contro l'individuo è sovraccaricato di responsabilità e di pro­ve che fino ad oggi non conosceva. Secondo questa lettura, le patologie mentali sono men­tali non perché è malata la mente ma perché è malata la relazione e il legame sociale: le idee che ci si fa di sé e degli altri sono dettate dalla per­secuzione o dal disprezzo, i sentimenti morali si ispirano all’indifferenza e non più alla vergogna e al senso di col­pa, le emozioni sono tristi e solitarie. 

Per la spiegazione della soffe­renza psichica e salute mentale, il riferimento alla vita sociale, alle trasformazioni istituzionali e normative è permanente e sempre più si parla di patologie sociali[1]. I mutamenti nella vita sociale comportano mutamenti nella psicopatologia. Cosi, una grande quantità di clinici reputa che si stiano sviluppando patologie del legame sociale (come le dipendenze, lo stress post-traumatico o i disturbi per il mancato riconoscimento); le agenzie del mondo imprenditoriale (asso­ciazioni padronali e sindacali, responsabili delle risorse umane, consulenti…) registrano aumenti di sofferenza per stress da lavo­ro che sarebbero l'espressione di nuove pressioni ri­sultanti dalle trasformazioni delle modalità di management; i ser­vizi sociali si devono sempre più fare carico dell’aumentare degli esclusi, dei poveri o dei marginali, riferendosi alla recente nozione di sofferenza psicosociale (poiché la sofferenza sociale è anche psi­cologica). Insomma, a livelli e in contesti diversi, la salute mentale sembra porre agli attori e agli osservatori di questo ambito la questione del vivere insieme, del destino del legame so­ciale nelle società democratiche. 

 

Nuove spiegazioni

Ai tempi di Freud e della psichiatria fino a circa gli anni ‘60 vigeva la clinica della repressione e dell’interdetto (quella che produceva le cosiddette nevrosi da traslazione): era definito insano di mente chi viveva una lotta interna fra pulsioni contraddittorie e/o una resa totale alle pressioni provenienti dal sociale interiorizzato come Super-Io rigido. Le malattie psichiche venivano suddivise nei due grandi contenitori della nevrosi e della psicosi. Verso gli anni ’60 nasce il cosiddetto «stato limite», quel terzo contenitore che raccoglie le malattie che si pongono sulla linea di confine (borderline) fra la nevrosi e la psicosi.

Nel corso degli anni ‘70, incominciò ad imporsi l'idea secondo cui l'«uomo pubblico» è in declino a vantaggio dell'«uomo privato». I legami sociali perdono la loro forza e la società si trova ad essere invasa da individui solitari e narcisisti. Le problematiche relative alla perdita dei legami pren­dono il sopravvento su quelle del conflitto. 

Oggi, Edi­po ha ceduto il posto a Narciso. Il concetto psicologico di narcisismo è diventato un concetto sociologico che descrive l’attuale ondatadel «pro­cesso di privatizzazione» dell'esistenza. Le novità che caratterizzano la società attuale vanno di pari passo con le novità nello spettro delle malattie mentali. Con Narciso, dunque, noi abbiamo da una parte una espressione politica e morale dell'individualismo e, dall'altra, un metodo per combina­re sociologia e psicoanalisi[2]

Gli operatori della salute tendono a pensare di avere a che fare sempre meno con una clinica della repressione e dell'interdetto (che interessava tanto a Freud), e sempre più con una clinica dell’ideale malato. 

La novità è generalmente inter­pretata come il risultato di un cambiamento sociale che può esse­re formulato nei seguenti termini: non si tratta più di liberare l'individuo dalle coercizioni sociali (introiettate in un Super-Io rigido) che gli impediscono di diventare se stes­so, e neanche si tratta più di dare unità e armonia all’Io succube di pulsioni interne opposte, ma di sottrarlo alle seduzioni morbose degli ideali sociali che lo costringono a diventare se stesso e gli consigliano una tranquilla navigazione fra i suoi stati interiori, dissociati e contraddittori che siano. In altre parole, la spiegazione della patologia è passata dall'impedimento a diventare se stessi all'obbligo di diventarlo.

Questo spostamento ha gene­rato una nuova soggettività: la soggettività liberata. Liberata da che cosa? Dagli interdetti esterni e dai conflitti nevrotici interni. Che tipo di soggettività ne risulta? In piena autonomia, auto-regolazione, senza repressione e…. in piena solitudine con i suoi disturbi. Oggi patologia significa malattia del legame. L’antica soggettività repressa soffriva delle nevrosi di traslazio­ne, l’attuale soggettività liberata soffre delle patologie del legame e dell'ideale. Il declino dell’obbligazione sociale, se ci libera da una patologia per eccesso di disciplina («nevrosi classica»), ha come prezzo da pagare una patologia per eccesso di autonomia. Non a caso oggi - anche in virtù della realtà virtuale - si parla di normale dissociazione dell’Io, di appartenenze multiple, di fluidità dell’Io, fino al punto che sarebbe tramontato il compito di avere un io unito e coerente nel tempo e nelle circostanze. Il legame sociale s'indebolisce mentre per contro l'individuo è sovraccaricato di responsabilità e di debolezze psichiche che fino ad oggi non conosceva e che sono lasciate alla sola sua regolazione. Con il risultato di«Io narcisista - Io minimo» (Christofer Lasch), di «pensiero debole» (Gianni Vattimo), di «società liquida» (Zygmunt Baumann), di «epoca delle passioni tristi» (Miguel Benasayag e Gérard Schmit), o ancora, di «uomo senza inconscio» (Massimo Recalcati) e «uomo di sabbia» (Catherine Ternynck).

Le nuove sofferenze si presentano dunque come il prezzo di questa perdita d'autorità, di questo declino dell'obbligazione sociale: sarebbero, rispetto ai valori dell'autonomia, ciò che la nevrosi classica era ri­spetto a quelli della disciplina. In questo senso ma posizionate sull’estremo opposto potrebbero trovare una spiegazione anche le nuove malattie caratterizzate dall’ossequio incondizionato e innamorato al principio di autorità, qualunque essa sia.

  

Ha sterminato la sua famiglia…. ma era una così brava persona.

A questo punto si possono capire le nuove violenze che quotidianamente i mediaci riferiscono con costanza certosina. 

La violenza è un fenomeno storico sempre presente, che ogni so­cietà ha conosciuto. Ma oggi assume forme nuove e inaspettate, e necessita nuove spiegazioni. Non è più (solo) spiegabile con l’argomentazione che colui che la compie è un matto da manicomio che da sempre si è comportato più o meno da matto. Oggi colui che la compie è un matto tipico della seconda modernità. Non risulta un matto nel senso classico/psichiatrico della parola ma è matto nel senso psico/sociale: il suo disturbo affonda le radici nella sua interiorità sconquassata, ma non lo vedono i passanti né i vicini di casa e forse non è neanche rilevabile dai tests psicologici o da un’intervista clinico-psichiatrica. Scoppia quando scatta il nuovo connubio fra soggettività liberata, declino dell’obbligazione sociale e malattia del legame di cui abbiamo parlato più sopra. È quando questi tre elementi entrano in collisione che esplode il fattaccio inaspettato.

Pensiamo alla violenza dei tifosi in occasione di un derby calcistico: la partita che si sta giocando è spesso solo un espediente per mettere in scena attacchi già programmati prima; la trasferta dei giocatori non è per vedere la partita ma per distruggere un quartiere; gli atti vandalici sono compiuti da un aggregato di persone che si muovono in solitaria e con la convinzione che tutto è possibile. Oppure pensiamo alla scatenata dei black-block per le strade urbane che parte come manifestazione di protesta e poi si stacca dalla ragione d’origine per svolgersi secondo un clichè valido per qualsiasi ragione. Pensiamo ai terroristi internazionali e all’orgoglio con cui si fanno fotografare prima di decapitare il sequestrato. Pensiamo allo sterminatore della sua famiglia e alla tranquillità con cui, subito dopo, va a bere una birra con gli amici o ad altre tragedie familiari scisse da ogni connessione causale che le possano in qualche modo aver motivate.

In fin dei conti la soggettività liberata di cui abbiamo parlato dice: sei tu a decidere, sei tu - come unica istanza e con le tue fragilità - a scegliere se sca­gliare o meno l'estintore verso il furgone blindato dei carabinieri; sei tu e solo tu a decidere della bontà o malizia delle tue azioni. Questo tu è una monade solitaria la cui scelta dipenderà inevitabilmente dal tasso più o meno alto di perfidia in esso incorporato. Questo tu non è stato abituato a reprimere ma a navigare fra i suoi stati interiori, dissociati e contraddittori fra loro, per cui non si vede come possa avvertire una contraddizione fra l’essere un bravo figlio e un freddo assassino, un bravo studente e un black-block scatenato. Questo tu, deprivato della connessione con l'ambiente, la cultura, la storia, ha come unico criterio di obbligazione quello che spunta, al momento, dentro di sé, a volte nel buono e a volte nel cattivo esito. 

Intesa in questo modo, la violenza diventa un fenomeno, individuale e collettivo, la cui insorgenza non può essere prevista in modo puntuale, ma solo per grandi numeri, in modo assai generale e restando aperti a tutte le ipotesi e possibili evenienze. Essendo scissa da ogni tentativo di spie­gazione eziologica a partire dal contesto biografico in cui essa si è plasmata, diventa qualcosa di improvviso e prima impensabile. 

Se è così, se le nuove violenze sono frutto di nuove patologie, non basta più la repressione; essa rimane una condi­zione necessaria di contrasto, ma in favore della protezione delle eventuali vittime e meno come riabilitazione del violento: dato che a lui manca la capacità interna di reprimere, quella esterna non basta per fargliela attivare ma gli produrrà ulteriore furia. Né pare che la prevenzione sia suffi­ciente: come si fa a prevenire l’insorgere di una patologia se il suo terreno di coltura è proprio quello che si offre nell’educare? E necessario un ripensamento dello stesso modello di sviluppo storico, di cultura e di economica (anche di mercato), ormai incapaci di controllare le conseguenze da loro stesse indotte. Ma di fronte all'immensità di tale compito il necessario si con­verte in impensabile e l'impensabile sfuma nell'utopia. Ciò che intanto resta è una vita sempre più solitaria e sempre più violenta. 
 

[1] Cf ad esempio, A. Ehrenberg, La società del disagio. Il mentale e il sociale, Einaudi, Torino, 2010.

[2] Due sociologi america­ni, Richard Sennett con Il declino dell'uomo pubblico. La società intimista nel 1977 e, soprattutto, Christopher Lasch con La cultu­ra del narcisismo nel 1979, lanciano l'idea che l'individuo è diven­tato narcisista. Il modo in cui questi due sociologi si appoggiano sulla psicoanalisi per fare della socio­logia è divenuto il grande modello metodologico per parlare dei mali generati dalle società individualiste.Nel 2002, ad esempio, Marcel Gauchet, uno dei principali filosofi francesi dell'indi­vidualismo, rende omaggio a Lasch per aver individuato molto presto «l'ondata del pro­cesso di privatizzazione» dell'esistenza (Cf La democrazia contro se stessa, Città Aperta, Troina - En 2005, p. 11). In Francia, i sostenito­ri di questa tesi si richiamano ai concetti di Jacques Lacan, come quelli di ordine simbolico ormai in crisi, o di imagopaterna og­gi in declino, ma a essere attivato è in fondo lo stesso model­lo che associa l’intrapsichico con il sociale. 

 

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