Papa Francesco, fase numero due


Editoriale
Tredimensioni 11(2014) 116-120



Le improvvise e per molti di noi imprevedibili dimissioni di Papa Benedetto XVI e la successiva elezione, il 13 marzo 2013, di Papa Francesco, hanno messo in moto un cammino di Chiesa che a molti appariva appesantito.

È innegabile che qualcosa nella Chiesa è cambiato, nei suoi linguaggi e nelle sue scelte, nel suo metodo e nei progetti che essa propone. Ce lo hanno subito fatto capire i gesti di papa Francesco, inusuali e che violano il protocollo, la sua normalità (come dimenticare le sue scarpe consumate?), le azioni del tutto ordinarie come fare una telefonata improvvisa ad una persona comune, le tenerezze non studiate verso i malati e i poveri e le stesse amabili bacchettate rivolte senza cattiveria ma con arguzia folgorante a chi nella Chiesa ama la carriera e i segni esteriori della ricchezza e del potere. Questi gesti non sono le trovate di chi vuole «bucare lo schermo» per mettersi in mostra, ma la spontanea espressione della intenzionalità di un papa che vuole essere talmente fedele a trasmettere la Verità eterna da volerla farla incontrare con la storia degli uomini affinché la eternità di quella Verità risplenda ancora di più e venga accolta anche per la sua attualità e accessibilità. Questo papa, sia chiaro, non è un ingenuo: è un gesuita, il che significa che è uomo di studio e di governo, sa bene quello che fa e sa bene che fare entrare la storia nella comprensione della Verità è stata l’intuizione centrale del Concilio Vaticano II. 

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E la ricaduta?

Un uragano di ovazione. Piazza s. Pietro strapiena, l’unanime applauso delle testate giornalistiche, Face-book e Twitter inneggianti, «uomo dell’anno» per tanti magazinemondiali, notizia giornaliera dei telegiornali, siti internet a non finire, speranza ambiziosa di potersi accaparrare una intervista, fantasia di ricevere una telefonata e (perché no?) provare a farne una a lui.

Che tristezza! Così facendo gli facciamo del male. Travisiamo la sua intenzionalità. Banalizziamo il suo messaggio. Anziché riflettere sul suo richiamo che la carità deve associarsi alla Verità lo schieriamo come gay-friendly o come l’iniziatore di un nuovo relativismo etico. Il suo appello ad uscire verso le periferie delle città non ci fa pensare a quali residui di missionarietà siano rimasti in noi ma a cercare la favelas più vicina per passarci le domeniche. Quando parla non ascoltiamo quello che dice, ma guardiamo se ha ancora le scarpe vecchie e la talare trasparente. 

E così lo lasciamo solo. Lui si propone autorevole per la bontà e praticabilità delle verità che propone e noi gli diamo autorità per la sua capacità di imporsi all’attenzione. Lo neutralizziamo. Come fa un leader a mantenere la freddezza della distanza quando ogni giorno gli viene chiesto di stupire e di perdersi nella folla? Se fosse il contenuto a farci riflettere, ci sentiremmo interpellati e una nostra risposta è d’obbligo. Quando invece è la sua notorietà a colpirci, lo mettiamo sulla scena, per passare - in un momento successivo - ad un altro personaggio. Sostenere con un supporto emotivo è molto fragile: oggi c’è e domani non c’è più. Per natura sua è un sostegno infedele.

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Dentro alla chiesa, l’ovazione si attenua a perplessità che - ci sembra - si palesa in due forme: la resistenza silenziosa e l’attesa passiva. 

Come avviene per ogni leader che innesca novità, è normale che negli ambienti di potere e di governo ci siano alcune resistenze. Ogni istituzione resiste al cambiamento. Se l’aggressività non supera i livelli di guardia, di solito sono resistenze sussurrate (perché è evidente che a comandare è il capo), nella ricerca (di solito, anti-storica) che si possa ricostruire qualche argine, operazione fallimentare dal momento che ogni papa attuale è quello che il Signore ha scelto per l’oggi e il domani della sua chiesa.

Ciò che invece sembra meno normale sono le reazioni della chiesa «militante», quella che -con le parole di papa Francesco - ha l’odore delle sue pecore: vescovi, parroci, clero giovane, seminaristi, forze fresche della vita consacrata… Questa chiesa ha subito fatto propria la speranza di papa Francesco di rendere accessibile il Vangelo come parola desiderabile e possibile, ma che sembrava essersi chiusa in linguaggi e stili di chiesa rigidi ed esclusivi. Molti operatori della pastorale che nella chiesa si sentivano ai margini hanno incominciato a sentirsi di più a casa propria. Ma - ci sembra - è ancora una speranza da divano. Appena c’è da assumersi una responsabilità o una compartecipazione a questo cambiamento, gli entusiasmi evaporano.

Infatti dopo l’iniziale sospiro di scampato pericolo (avere un papa piuttosto che un altro ha ricadute diverse), da questa chiesa militante ci si aspettava una reazione più impegnata, un incipitpiù vigoroso di conversione, un rialzarsi più lesto verso un sentiero che può aprirsi anche dentro di noi e che può aprirci a nuovi orizzonti. L’orgoglio di avere un papa così c’è tutto, ma smuove poco. Ci accontentiamo di dire: «È bello sapere che c’è!» Sembra che ci basti il supporto emotivo che papa Francesco ci sta dando. Ci fa sentire protetti alle spalle e ci ha fatto ritornare in auge presso la gente. Come i media danno a lui un supporto emotivo, così lui lo dà a noi. E qui ci fermiamo. «Domenica abbiamo giocato bene» dice il tifoso, ma a giocare in campo non c’era lui. Riscaldati nel cuore, restiamo in attesa di vedere come va a finire. Negli incontri informali fra noi preti e religiosi/e, l’argomento papa Francesco fa notizia, ma dopo esserci aggiornati sugli ultimi suoi gesti, il discorso passa spontaneamente ad altro, anziché entrare nel vivo dei contenuti che il papa trasmette con quei suoi gesti e confrontarci sui nostri modi di assumere quei contenuti e sulla volontà di rispondere. Poi aspettiamo. Forse è troppo bello per essere vero? Forse non dura? E, così, lo lasciamo solo a fare l’apri-pista. Una ruspa serve da apri-pista ma deve avere dietro di sé degli operai che assestino il terreno, altrimenti produce solo movimento di terra. Gli avanzamenti, quelli che incidono sulla prassi in modo duraturo, sono fatti da gruppi e non da singoli. Il capo dà il via e gli operai ci mettono gli attrezzi ma anche il loro genio.

 

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Sperare in un leader non significa solo imitare i suoi esempi. 

Unprogettista non può essere solo un esempio per i suoi operai! Deve essere anche un ispiratore per la loro inventiva. Un operaio è bravo non solo perché ha degli attrezzi fra le mani ma perché nella sua mente fa suo il progetto del capo e lo sa realizzare con l’aggiunta della propria inventiva. Allora, aspettarsi una reazione più impegnata significa introiettare l’orizzonte di vita e di pastorale che il papa suggerisce e seguirlo, semmai, con concretizzazioni diverse. 

L’esempio è tale se fa capire lo spirito che c’è sotto e se, una volta decodificato e interpretato, dà origine a concretizzazioni diverse. Altrimenti, l’apprendimento per mimesi - che è un processo infantile - porta a pura compiacenza, cioè a scimmiottare. Senza attenzione ai processi sottostanti che papa Francesco sta innescando, gli esempi bellissimi che ci dà possono essere copiati o disprezzati, ma senza capirli e quindi con effetto zero, esaurendosi con lui. Se ci interroghiamo sugli orizzonti (che non parlano solo della prassi ma dei criteri con cui questa prassi va posta oggi) e se li facciamo nostri, quando vediamo le scarpe consumate di papa Francesco non dobbiamo sentirci obbligati a nascondere nell’armadio le nostre che sono nuove. Il suo appello ad uscire verso le periferie sta ad indicare anche un certo modo di vivere nel centro città.

 

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Caro papa, noi di Tredimensioninon vorremmo lasciarti solo e per questo vorremmo farti un regalo: il nostro contributo per un risveglio della cultura. 

Quello che fai e che dici è in forte continuità con le linee maggioritarie della teologia contemporanea e delle scienze umane. Per te è un modo ovvio e indiscusso per essere autenticamente cristiani. Ma non è così evidente per tutti. Rischiamo di prenderlo come frutto della tua sensibilità latino-americana che, in quanto tale, non si può imporre a tutti. Dobbiamo, invece, maturare dentro di noi e renderci conto che tu sei quel frutto maturo della comprensione del Vangelo e della Tradizione che va bene per l’oggi. 

C’è bisogno che la cultura si metta in moto per esplicitare i fondamenti teologici e antropologici del tuo insegnamento, per farci capire che i tuoi segni sono dei simboli che vanno meditati e non solo ammirati. Non basta una cultura cristiana che riferisca o descriva il tuo pensiero, che ti intervisti o faccia convegni; ce ne vuole una che ti supporti con argomentazioni sistematiche, autonome, architettate in base alle sue competenze, anche a costo di non farsi capire da tutti. Occorre che le conferenze episcopali nazionali, le università ecclesiali, le riviste scientifiche, i centri di ricerca cattolici e gli uffici pastorali locali facciano emergere la pregnanza teologica del tuo magistero e lo facciano diventare acquisizione assodata e adattabile alle realtà regionali. Vorremmo regalarti una cultura cristiana che nasce dal confronto continuato tra l'esperienza pastorale e la riflessione precisa ed accurata tipica delle università.Non si tratta di partire da zero: in questi anni tanti teologi, pastori e semplici fedeli sono andati in questa direzione, ma le loro proposte sono spesso rimaste isolate e non hanno quindi dato vita ad un vero cammino ecclesiale. Il sentiero da te indicato diventa progetto se c’è anche un percorso di sostegno culturale che lo affianca. Il tuo rinnovamento vuole arrivare a toccare la pastorale più ordinaria delle comunità, quella che si impregna della quotidianità. Ma perché questo accada, perché si attivi una pastorale nuova, è necessario che ci sia anche una teologia che anticipa e supporta la pastorale. È questo che desideriamo che il mondo scientifico ti dia e ci mettiamo a disposizione con il nostro contributo.

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