Da solo con il pederasta


Editoriale
Tredimensioni 6(2009) 1, 4-7



Le violenze sessuali sui minori stanno diventando casi sempre meno rari. Anche per il tecnico della questione, il caso ha perso il suo fascino di eccezionalità. È diventato un caso «normale». Purtroppo, anche il copione che ci sta dietro ha un formato standard. Quasi con le stesse parole, tutte le vittime della vita descrivono l’identico dramma che si perpetua dietro alla commedia dell’indignazione pubblica che ha la durata dell’attimo della cronaca. 

Atto primo. L’amico, così mi avevano detto di chiamarlo, vuole tanto bene alla mamma e, di conseguenza, anche a te. Io protestavo: «Ma lui mi tocca, quando la mamma non c’è...!».

Dopo un po’ non l’ho detto più perché mi hanno detto che queste bugie non si dicono. Che avessi un animo bugiardo e cattivo l’ho creduto per tanto tempo anch’io, visto che da quando c’era l’amico anche il papà si poteva concedere di comperare tante cosette…

Atto secondo. Se l’amico è tanto buono perché non tenerlo da noi? Detto, fatto. Fuori il papà, dentro lui. Non che il papà se ne sia andato materialmente. Se ne è andato solo con gli occhi. Intanto io ricevevo esplorazioni sempre più interessate e… interessanti anche per me.

Atto terzo. Quando avevo imparato che anche altre mani potevano avere libero accesso al mio corpo, panico totale. Aiuto! Aiuto! Ho il coraggio o, meglio, la disperazione per rompere l’omertà.

Ne parlo, a grandi linee, con il mio insegnante. Lui risponde: ne parlerò con il preside. Non so se lo ha fatto, ma con me non ne ha più parlato. Riprovo con il carabiniere della porta accanto: se vuoi puoi fare un esposto alla questura. Indietreggio. Provo con altri: loro, almeno, mi hanno pagato un avvocato (Sai? Quello che ha parlato al convegno contro la pedofilia!). L’avvocato ascolta, ma mi chiede le prove: quando le hai ritorna. Vado all’associazione predisposta: e tuo padre è disposto a venire qui? Ho anche navigato in internet nei siti «anti-». Li ho contattati (si poteva chiedere aiuto via E-mail). Risposta: prendi questa strada, fai così e così…, ma non è nelle nostre competenze accompagnarti strada facendo, ti possiamo fornire indirizzi di avvocati e psicologi. Il circolo si chiude. Non mi resta che piangere dal prete: Dio ti ama, per il resto non me ne intendo. Ah, dimenticavo. Ho bussato anche dai politici, quelli pro-famiglia: noi trattiamo l’aspetto globale, non i casi singoli.

Atto quarto. Me la sono spicciata per conto mio. E tutto sommato direi che mi è andata abbastanza bene.

Nei momenti duri recuperavo un tizio a cui mi ero rivolto all’inizio del mio peregrinare: sapevo che non era un esperto, ma mi dava l’idea di essere un saggio della vita. All’epoca dei miei giri, però, lo avevo scartato subito perché, non essendo un tecnico, era l’unico che non mi aveva consigliato antidoti. Dopo avermi ascoltato, mi disse soltanto: tu sei solo, con il tuo problema; mi dispiace, ma lo devi accettare; se vuoi, ti posso dare una mano per sopportarla, la tua solitudine. Lo lasciai perdere perché sentendomi dire così, lo presi per il più menefreghista di tutti e lo mandai al diavolo come gli altri (Ma come? – pensai – Non si indigna e non protesta per quanto mi è accaduto?). Ma poi ci sono andato lo stesso, da lui, tutte le volte che ero vicino ad affogare.

Adesso ho imparato a gestirmi il mio corpo e a ridere dei convegni sulla pedofilia.

Ho voluto ripescare quel tizio. Gli ho chiesto: sono diventato saggio o ironico? Mi ha risposto: noi abbiamo trasformato i problemi in commedia, tu no.

Io no (forse). Ma gli altri palpeggiati e meno agguerriti di me?

P. S. Faccio notare che provengo da un’onesta e benpensante famiglia borghese.

 

Stiamo parlando delle vittime della vita, ma di quelle documentate e non di quelle sedicenti tali (per riscuotere lauti guadagni) o piazzate da altri in quel ruolo (per screditare una particolare categoria). Le vittime (comprovate) della vita hanno bisogno di alleati che le proteggano anche con la denuncia o la segnalazione all’autorità giudiziaria, di amici che le aiutino a fare argine, di professionisti che intervengano con terapie di sostegno, interpretative, di riabilitazione…

In questa importante fase di contenimento del trauma, senza commiserazioni o falsa pietà dobbiamo farci alleati della vittima per trasmetterle la nostra forza che la possa aiutare ad estrarre da se stessa la forza di sentirsi più forte del trauma subito. È la fase terapeutica, anche nel senso lato della parola perché, a volte, si tratta di stare vicino alla vittima anche per anni, soprattutto se si tratta di un minore. Trovarsi da soli, nel vortice delle emozioni, si rischia di affogare.

Ma dopo aver preso (anche vigorosamente) le difese della vittima, e quando lei ha raggiunto un sufficiente grado di autoconsapevolezza, occorre aiutarla a staccarsi dal vittimismo, a detestare il verbo «subire», ma a non aborrire il sostantivo «trauma». Se, con un primo movimento, ci si mette in difesa della vittima per difenderla dal trauma, in un secondo momento la si aiuta ad accettare il trauma. È però una fase che deve essere seguente a quella della tutela e del combattimento perché, altrimenti, accettare suona come un invito al fatalismo o alla rassegnazione («ognuno ha i suoi guai e tu hai i tuoi!»). Infatti fra le vittime della vita, c’è chi è diventato ironico e scettico.

 Se – fin dall’inizio – abbiamo conservato la fiducia nella capacità della vittima di non essere soltanto vittima, lei – poco a poco – incomincerà a posizionarsi non da vittima verso la sua vita e arriverà ad accettare l’impatto mai facile (per tutti) con la realtà.

In questa seconda fase, chi aiuta non interagisce più con una vittima e la sua ingiustizia subita, ma con una persona umana e l’inevitabile incontro (di tutti) con il dolore che la vita umana prima o poi riserva. È a questo punto che appare il messaggio della solitudine come via risolutoria del trauma. Gli aiuti, prima o poi finiscono e ognuno deve arrangiarsi e decidere – in proprio – come rispondere alla vita. Con un gioco di parole si può dire che gli aiuti aiutano a ricuperarsi come persona, ma come vivere da persona è una scelta della persona.

Di fronte alle difficoltà della vita c’è una solitudine da riempire e una da custodire. Quando si è immersi in un problema, trovarsi da soli come un cane è una cosa orrenda. Ma dopo essere stati aiutati ad arginare il vortice emotivo che ogni problema comporta, la prospettiva di essere da soli – e quindi liberi – a configurare il proprio futuro dà un senso di competenza e padronanza di sé.

Dopo aver aiutato la «vittima» a difendersi dal trauma, c’è il passo successivo di aiutare la «persona» a non cascare nell’ironia e deresponsabilità. Ma questo è un pericolo che vale per tutti, anche per quelli nati fortunati. E la risposta, ognuno la trova in sé.

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