Ricerca vocazionale: le nozze d'argento


Editoriale
Tredimensioni 9(2012) 4-8



«Pronto, sorella…»

«Buongiorno, mi dica.»

«Senta, mi chiamo Francesca. Ho visto su internet l’annuncio del corso vocazionale per giovani che si terrà da voi. Vorrei iscrivermi…»

«Bene. Quanti anni ha, Francesca?»

«34»

«Ah… e quando deciderà di diventare adulta?».

Mentre suor Gilda mi racconta questa simpatica telefonata, ascolto tra il divertito e il compiaciuto pensando tra me e me: «Vedi che non sono l’unico? Sapessi quante me ne capitano di persone così…!».

Finita la telefonata, Gilda, che non è italiana, mi chiede: «Ma in Italia,  fino a quando si è giovani? Io ho 30 anni e quando mi dicono che sono una giovane religiosa io sempre rispondo: no signori, io sono cresciuta!». 

Mi sento scoperto e anche un po’ umiliato: ho qualche anno più di lei e non mi dispiace essere considerato un giovane religioso… a parte da chi, con tono paternalista, vuole ferire la mia ricerca di autonomia. 

Cerco di difendermi: «anche la pastorale giovanile italiana considera giovani i 30enni e persino i 40enni!». Proprio così: la tiriamo per le lunghe. Il nostro modo di trattare i giovani si mette al traino dell’andamento generale della società postmoderna, incapace di porsi invece come pietra di scandalo.. Preoccupati di non vedere fallire le nostre infinite proposte di corsi, campi-scuola e ritiri per giovani, cediamo alla reciproca gratificazione di eterni adolescenti in cerca di un nido accogliente, piuttosto che porci coraggiosamente dalla parte del pizzico di lievito che non si vede, ma laddove c’è fa fermentare tutta la pasta. E a questi giovani eternamente in preparazione parliamo di ricerca, di discernimento, di fase propedeutica…, insomma di un futuro da adulti che appartiene al domani che non c’è, anziché all’oggi che deve incominciare. E così, li teniamo forzatamente giovani.  

 

Relazioni compromettenti rimandate

Questo trattenerli in un presente ormai superato fa un cattivo servizio ai giovani. Li trattiene sul fronte di un’identità debole di sé e rimanda il loro ingaggiarsi e misurarsi su relazioni forti. 

Si realizza un paradosso di comunicazione: a forza di invitarli a prepararsi ad un futuro ma che futuro rimane, ad interrogarsi sul «che cosa farò da grande» senza far prendere atto che sono già grandi…, si trasmette l’invito a restare degli sperimentatori, dei ricercatori ad oltranza, senza partner e senza casa, in uno stato di sospensione che non tira mai le somme. I discorsi sull’impegno di vita rimandano ad una conclusione che appartiene ad un domani che domani diventa dopodomani e nel frattempo si proseguono relazioni indecifrabili (vedi quelle amorose), incerte (vedi le scelte professionali), invischiate (vedi i legami a doppio filo con la famiglia). 

E poiché le relazioni contribuiscono decisamente alla scoperta e al consolidamento della propria identità, andate in crisi quelle ci troviamo anche in una colossale crisi di identità (basti pensare all’esempio più eclatante, cioè la differenziazione di genere). 

Quando la ricerca richiede conclusione, si slitta in un’altra ricerca e si fanno telefonate tipo quella riportata più sopra. I programmi di ricerca (anziché di decisione!) vocazionale non possono illudersi di trasformare in solide, relazioni liquide con gli altri, con la vita, con se stessi. 

Il processo di maturazione si snoda lungo tre parametri o assi  fra loro intrecciati: alterità, temporalità e stadi, e il primo è proprio il parametro dell’alterità. Ciò per significare che per un armonico sviluppo dell’Io è necessario crescere nelle relazioni, secondo un itinerario che si snoda gradualmente nel tempo e attraverso degli scatti - degli stadi appunto - che, assumendo le conquiste ottenute nello stadio precedente, spingono la persona a nuovi e ulteriori compiti evolutivi. 

Se, dunque, il giovane d’oggi vive una crisi di relazioni e di relazione, ciò significa che il primo parametro del processo di sviluppo è minato alla radice. Ma poiché la persona è una totalità inscindibile, ne deve conseguire che anche gli altri due saltano, vanno in crisi, sbandano.

 

Difetto di fecondità

Diventare adulto, secondo la nota elaborazione di Eric Erikson, significa entrare nel penultimo stadio dello sviluppo caratterizzato dal «conflitto tra fecondità e stagnazione». 

Sostanzialmente, si entra nella fase adulta quando si sono trovate (e non solo cercate) le risposte a domande come: conviene conservare se stessi oppure farsi afferrare da qualcosa e da qualcuno? Posso e voglio lasciare un segno significativo nel mondo? Nella mia vita privata e pubblica sono produttivo o ripetitivo? La risposta a queste domande richiede una scelta di campo, generalmente definitiva, una scelta vocazionale da attuare oggi e non solo da sognare per domani. 

Invece, come esprime la vignetta di apertura, appare sempre più evidente che in Italia l’età anagrafica non corrisponde allo stadio che ragionevolmente potremmo aspettarci dal punto di vista psichico. Si è ancora in ricerca, oltre il tempo massimo.

Questo significa che il soggetto non ha raggiunto ancora lo stadio della vita adulta, non tanto per un contesto esterno che lo impedisce, quanto piuttosto per una fatica interna che frena il passaggio di qualità. Il contesto socio-culturale condiziona senza dubbio i percorsi interiori. Ma sostenere che non si riesca a diventare adulti perché non c’è lavoro, significa limitarsi a cercare le cause, e quindi accontentarsi di una spiegazione. E la spiegazione, da sola, non aiuta a crescere, anzi rischia di diventare un solido sistema difensivo per porre il problema all’esterno e quindi fondamentalmente non affrontarlo.

La persona non è in grado di passare da uno stadio all’altro del proprio sviluppo forse perché ancora non ha percorso (cioè assolto, gustato, sperimentato) nemmeno il contenuto degli stadi precedenti! Solo due esempi, ancora sullo sfondo della teoria di Erikson circa gli 8 stadi dello sviluppo. Il bambino sempre più spesso è costretto a sottoporsi a sfide e a gare sportive, musicali, aggregative, educative…  senza aver fatto l’esperienza previa della fiducia di fondo in se stesso, che viene dalla presenza stabile di due genitori che si amano e lo amano: non può divertirsi, sognare, oziosamente giocare…, deve gareggiare e diventare grande anzi tempo. Oppure, l’adolescente (e il preadolescente) si ingaggia in relazioni sessuali che non possono dargli esperienze di intimità, perché evolutivamente si trova ancora in uno stadio previo a quello dell’intimità, dove l’intimità non è ancora giunta alla ribalta perché l’adolescenza è per definizione l’età in cui si cerca la propria identità e ci si chiede se si ha un ruolo nel mondo («conflitto» che giace a uno stadio precedente a quello di «intimità e isolamento»). 

Se questo è vero, dovremmo concludere che i giovani italiani di oggi non hanno nemmeno le risorse per passare allo stadio della vita adulta e per necessità o virtù  si mettono in stand-by, apparentemente ricercatori di un futuro più denso, ma in realtà più desiderosi di essere coccolati e gratificati nelle proprie dinamiche più immature di quel che sembri.

Bruciato il parametro dell’alterità, anche quello della tempo si blocca. Eccoci al mito dell’eterna giovinezza e delle roboanti e altrettanto ingannevoli programmazioni in difesa dei giovani e del loro futuro: dei giovani, ma a patto che rimangano nei ranghi degli eterni giovani.  

Sono lontani i tempi in cui diventare adulti era l’ambita meta di un’esistenza realizzata. Addio ai tempi che mettevano l’anziano a capo tavola delle nuove famiglie dei suoi figli. Addio al tesoro della memoria del tempo passato, dato che la storia non si è dimostrata maestra di vita. E per il futuro non c’è da sperare in meglio, visto che gli scrutatori del futuro non sanno prevedere un bel niente, come attesta l’attuale crisi mondiale dell’economia. 

 

Vorrei iscrivermi al corso vocazionale per giovani

Se né da Marte né da Venere, ma da questa cultura provengono anche i «nostri bravi» giovani, dietro le righe di una richiesta vocazionale ci può stare un mondo di altre richieste: «ho 34 anni e ancora non so cosa voglio dalla vita: capisci quanto soffro? Mi tieni, ancora un po’, dentro il limbo della gioventù? Finora ho dondolato un po’ di qua e un po’ di là: mi lecchi un poco le ferite?».

Accettare alla cieca e assecondare prontamente richieste vocazionali può diventare estremamente rischioso: va ad alimentare la passività, conferma e consolida la staticità di vita, mette le basi per costruire un nido tranquillo che maschera la paura della vita e della morte con ingenue spiritualizzazioni e mire di fraternità stile naif. Si rischiano le nozze d’argento di ricerca vocazionale.

  

Tracce di relazioni

Per valutare e poi far evolvere la domanda vocazionale (ed eventualmente rifiutarla per non perdere o far perdere altro tempo prezioso) si potrebbe indagare sulla maturità o immaturità relazionale di chi ce la pone. Non solo nel suo aspetto più ovvio di avere o aver avuto amicizie, relazioni sociali, frequentazioni…, ma in quello più pregnante di essere stati - almeno una volta! - afferrati e legati «al palo» senza possibilità di fuga: come ha reagito quando la vita gli ha chiesto risposte inderogabili, scadenze improrogabili, prese di posizione non più rimandabili? Quanto c’è di tenacia e costanza nella sua relazione con Dio? Ha già detto qualche volta: «vengo io, manda me»? La capacità di sacrificarsi per gli altri è un fatto documentato dal suo passato o un pio desiderio per il futuro? (Sì, perché il futuro si crea dal passato e ciò che si vedrà domani, alla fine della formazione, sarà la sviluppo di ciò che c’è oggi). Si attacca solo alle sue idee e al suo gruppo, o è capace di inserirsi in cose nuove di cui forse non ha mai sperimentato nulla? 

Assegnare qualche compito da concludere a breve termine può risultare più eloquente di tanti programmi aleatori basati sul «vieni e... magari si vedrà». 


Editoriale scritto in collaborazione con Luca Garbinetto, docente all’istituto Superiore per Formatori, Crotone.

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