Esigenze di ruolo e crescita personale: domande che non si fanno


Editoriale
Tredimensioni 2(2005) 3, 228-235



Ogni professione comporta un soggetto che la compie e un ruolo da espletare. Ci si può chiedere di che tipo è la personalità di colui che sceglie una data professione, oppure che cosa essa comporta, oppure che rapporto si può creare fra quel ruolo e l’interiorità di chi lo compie. Di questo terzo aspetto vogliamo parlare: delle «esigenze di ruolo» in rapporto all’effetto che esse hanno sul modo di sentirsi e interpretarsi di colui che lo compie. Fare il prete così come oggi si «fa» aiuta il prete ad «essere» prete oppure lo mette in una situazione di difficoltà maggiore del necessario? I pesi che egli incontra sono gli inevitabili inconvenienti da sopportare o contengono un lordo che sarebbe meglio scansare? Non parliamo dunque del ruolo in sé, né del soggetto in sé, ma della possibile atmosfera che scaturisce quando i due «personaggi» si toccano ed incominciano a danzare. Mettiamo il dito su questo aspetto perché ci sembra che la danza non sia proprio un valzer.

Domande evitate
Ci sono stati dei tempi (anche recenti) di scontata armonia (natural fitness) fra identità soggettiva ed esigenze di ruolo (ad esempio, fino a non molto tempo fa, essere prete significava avere autorità, prestigio sociale, apprezzamento sociale per una scelta così nobile …). In tempi siffatti, se il prete entrava in disagio, lo era – molto presumibilmente – per motivi personali. La stessa conclusione, oggi, non vale più. Se nelle grandi periferie si sente inadeguato, se è da solo in parrocchia e s’indurisce di carattere, se dal grande pubblico riceve indifferenza anziché ammirazione… oggi è legittimo chiedersi se è in crisi lui o in crisi il suo ruolo e di conseguenza lui. La fatica è sempre indice di soggettività vulnerabile o anche vulnerabilità della proposta? I conflitti fra soggetto e ruolo sono spiegabili solo ricorrendo alle inconsistenze del soggetto? Che il ruolo sia sorgente garantita di vita non è più così scontato. Non si può più concludere troppo in fretta: se ti conformi al ruolo sei bravo, se lo contesti sei immaturo, se fai fatica non hai spirito di sacrificio. C’è qualcosa da chiedersi anche sul modo pratico di fare il prete.

 Il ruolo proposto dall’istituzione è proposta matura e maturante per chi lo deve svolgere? Il modo di fare (ad esempio il parroco) così come viene tramandato al novello prete è mediatore progressivo (vetro che rimanda ad un orizzonte più grande) o regressivo (specchio che rimanda a se stesso): che ne sarà della vitalità di quel prete fra 10-15 anni? L’immagine che il ruolo dà di se stesso e che offre ai suoi adepti favorisce un’identificazione creativa o una difensiva? Che tipo di persone attrae? Più concretamente ancora: è ammissibile che il prete giovane nel pieno delle sue energie si ritrovi a dover ristrutturare la vecchia chiesa semmai con l’infausta sorpresa di un affresco cinquecentesco sotto l’intonaco; a dover licenziare a giugno per motivi di spesa economica le maestre della sua scuola materna e cercarne delle nuove ad ogni settembre; a dover celebrare quattro messe alla domenica e due ogni altro giorno passando da una chiesa all’altra, dato che ormai è responsabile di un’intera zona pastorale? «Padre, la prego, ritorni a trovarmi», «Ritornerò presto!» (ma lui sa che non è vero: gli rimangono ancora altre 1000 famiglie da visitare), «Padre, perché non si è più fatto vedere? », «Ci vuole pazienza, ho tanto da fare!». E poi c’è anche chi abbandona: solo per inconsistenze soggettive oppure si può anche dire che nell’istituzione – così come oggi si propone – ci possono essere persone con una relazione oggettuale più matura di quella che caratterizza l’istituzione stessa e che per viverla devono trovare un’altra strada?

Se queste non sono domande assurde, allora: perché non sottoporre il ruolo allo stesso movimento di partecipazione all’ideale e purificazione di sé che già chiediamo al soggetto? Dobbiamo continuare a sottoporre ad interpretazione il soggetto, ma fare la stessa cosa anche per i ruoli vocazionali che gli proponiamo. Come ci siamo impegnati ad amare il soggetto, ma anche a criticarlo per renderlo migliore, così ci impegniamo ad amare il ruolo che trasmettiamo, ma anche a criticarlo per renderlo più trasparente al valore che vuole veicolare.

A proprio agio con il vecchio per trovare il nuovo

Riflettere criticamente sui ruoli non significa smantellarli e ripudiarli. In tal caso, nella riflessione s’infiltrerebbe un elemento di aggressività che la inquina. Significa, semmai, continuare a viverli senza farsi intrappolare da essi: vederne anche gli aspetti obsoleti e continuare ad espletarli, accettare ancora il peso dell’osservanza, sopportare e farsi vittima, ma con una prospettiva realista di sviluppo documentata dall’astuzia di non farsi scappare occasioni propizie. Di solito, infatti, non è tanto il ruolo antiquato che esaspera, ma il suo congelamento in una capsula di stagnazione che lo perpetua in un futuro di cui non si vede la fine. Il travaglio di ri-tradurre ciò che è perenne può essere stimolante; l’impressione di trovarsi su un binario morto, molto meno e, anzi, porta a dire: «a fare i preti è dura ma ci si adegua, poi si impara a sopravvivere».

È fuori discussione che il formatore debba avere una personale accettazione e un'altrettanto ferma trasmissione dei modelli attuali di vita del prete (se no, è lui, il primo a dubitare del suo stesso essere e dire).

Altrettanto fuori discussione è il suo dovere di introdurre ad essi i formandi e raffreddare la velleità del «…ma domani sarà tutto diverso». Meglio evitare di ingannare i seminaristi. Non è corretto che il rettore di un seminario prescinda dal fatto che i suoi seminaristi, da preti, dovranno fare molte di quelle cose che il loro vecchio parroco sta facendo da una vita anche se già adesso appaiono obsolete, come sarebbe scorretto non affrontare con una novizia il fatto che la sua vita di donna adulta sarà con consorelle in gran numero vecchie e straniere.

D’altra parte, l’educatore deve anche saper fare la distinzione fra perennità del valore e modo attuale di concretizzarlo. È un misero se spera di fare dei giovani novizi di oggi la fotocopia dei frati di oggi (sé compreso) o di ieri, anziché augurarsi che ci sia continuità nei valori, ma dissomiglianza nelle attuazioni. Come dice il poeta «i loro spiriti abitano nella casa del domani che tu non puoi visitare, neanche in sogno. Tu sei l’arco dal quale i tuoi figli come frecce viventi sono lanciati lontano. L’arciere ama le frecce che volano ma anche l’arco che rimane fermo». O come dovrebbe dire il bravo genitore a suo figlio: non senza di me, ma con me, come me, attraverso di me per essere diverso da me.

Fra le generazioni che si succedono è auspicabile l’uguaglianza di valori ma altrettanto auspicabile la disuguaglianza nelle attuazioni secondo la logica del magis. Come nella trasmissione della verità siamo nel vero quando il nostro dire, nell’affermare qualcosa del reale, lascia aperta la possibilità che quel reale si manifesti ulteriormente, così nel campo formativo dobbiamo offrire un ideale che inviti il soggetto a superare la limitatezza della presentazione e attuazione che di esso finora ne abbiamo fatto. Il lavoro educativo è anche questo dialogo di interpretazioni che rimane all’erta per cogliere ogni ulteriore attuabilità del mistero che siamo chiamati a vivere.

Analisi critica del ruolo significa, allora, avviare al ruolo di sempre ma lasciandolo aperto a sue possibili evoluzioni che sappiano meglio mediare il mistero che vogliono tradurre.

Questa critica del ruolo si fa urgente, almeno per tre ragioni.

Natural fitness finita
Il rispetto a-critico del ruolo ha senso in tempi di spontanea armonia fra soggetto e ruolo. Perché sottoporre a critica i contenuti di una proposta quando in essa tutti vivono e si riconoscono e si può dimostrare che chi in essa stenta è per difficoltà personali?

La critica s’impone, invece, là dove questa spontanea armonia non si dà più (ma non si dà più neanche nel matrimonio). Fra domande del soggetto che entra in vocazione e risposte che l’istituzione gli offre c’è un ponte spezzato. Esempi banali:

Il modello «prete con perpetua» è finito ed è sostituito – di fatto e non per scelta – dal modello «prete solo con canonica disabitata e in disordine», fino, a volte, al punto di non capire se lo studio del prete è un luogo di ricevimento delle persone o una rimessa per attrezzi vari. È possibile che un giovane s’identifichi con un modello del genere? Modello, questo, non proposto (anzi, a parole, criticato dal seminario che proclama la necessità della comunità presbiterale), ma che di fatto s’imporrà quando il giovane prete si ritroverà catapultato e solo in parrocchia. Se, a questo punto, il poveretto vuole prendere sul serio i discorsi sentiti in seminario e fare la tanto sbandierata comunità presbiterale si sentirà dire dagli stessi sbandieratori: «Ma noi siamo diocesani, non religiosi; tu anteponi la comunità alla pastorale; sei contro il celibato; vuoi comunità elettive».

È realistico chiedere al prete giovane di educarsi all’autonomia quando quella autonomia significherà, di fatto, solitudine perché rientrato a casa stanco dal lavoro non avrà voglia di farsi da mangiare, ma solo di aprire una scatoletta di tonno o vagabondare da una famiglia all’altra per un piatto caldo già pronto? Quale giovane psicologicamente maturo può sentirsi invogliato ad addentrarsi in questa strada che a parole gli viene contrabbandata come «Lascia tutto per il Signore» ma che in realtà è prospettiva di vita randagia?

«Ma devi capire: dobbiamo rispettare gli anziani!», «Sì li rispetto ma io devo vivere! Per amore del nonno non posso bruciare la mia giovinezza», «Oh!, come sei egoista!».

Siamo nel tempo del lutto ma non sappiamo piangere
Il formatore intuisce benissimo che la natural fitness è finita, ma a questo punto può escludersi da solo l’«impudica» strada del riesame del ruolo. Però, siccome il problema c’è e rimane, quel problema gli marcisce dentro e lui anziché sanamente piangere, istericamente si lamenta: al ragazzo perplesso a donarsi nelle modalità che lui gli propone, lui risponde con la teoria della sofferenza (ma sofferenza in nome di che cosa?). Ragazzo (forse) indisponibile, ma anche educatore (forse) incapace di elaborare il ponte spezzato.

Si elabora bene il lutto quando, oltre a riconoscere che un oggetto non c’è più (ad esempio una persona cara), quell’oggetto viene ricuperato internamente, così da favorire una struttura dell’io rinnovata. Di quell’oggetto qualcosa è andato perso per sempre, ma qualcosa di nuovo è nato perché la relazione con esso è passata ad un altro livello, più intimo e spirituale. Nel lutto c’è una grossa corrente affettiva che viene minacciata, ma non per questo chiusa perché la relazione con l’oggetto si trasforma in qualcosa di più essenziale e intimo. Quando, invece, il lutto non viene risolto (ci si lamenta anziché piangere), anziché far nascere un oggetto internalizzato lascia un oggetto dimagrito: di quell’oggetto rimangono ricordi sfuocati e confusi relegati alla sfera emotiva e avulsi dalla concretezza del vivere.

Tre esempi di non elaborazione del lutto. A proposito del fenomeno dei preti pedofili è stato detto che dalla tragedia può maturare una visione più umana e purificata della figura del prete (è il problema del ruolo). Sarà! Ma come tangentopoli ci ha insegnato, può anche emergere un modo più astuto ed elegante di manipolare. «Verranno ad evangelizzarci dall’Africa!»: lacrime isteriche se dicono del nostro tracollo impotente; pianto fecondo se fanno riflettere sui criteri qualitativi che potrebbero favorire l’aumento delle entrate. «Il prete è l’uomo della rinuncia»: rinuncia come uso delle forbici (gli altri sì, tu no, non più) o purificazione per un livello più alto di sviluppo e azione dell’io?

Dunque, in tempi di eclissi della natural fitness, se l’educatore non passa attraverso il lutto, trasmette ruoli antichi, ma diventati scheletri. Quei ruoli ereditati verranno perpetuati dai giovani preti (se non altro per compiacenza perché discuterli sembra voler dire disobbedire) e le difficoltà a far presa sull’oggi diventeranno più grandi del necessario. Si può spiegare anche così la situazione paradossale in cui spesso cade il prete dopo pochi anni dall’ordinazione: i suoi interrogativi su come essere prete oggi e dialogare con la gente potevano spronarlo a vivere un ruolo più consono ai valori e invece diventano dolorosa constatazione della distanza fra lui e il mondo e occasione per lamentarsi del mondo o inseguirlo pateticamente scimmiottandolo.

Il ruolo non analizzato è verbalmente rispettato, ma di fatto disatteso se non addirittura rinnegato
Finita la natural fitness (dato di fatto) e bloccata la strada del riesame (omertà soggettiva), la ripetizione rassegnata del ruolo, con il tempo, diventa boicottaggio sado-masochista del ruolo stesso. L’arruolato coatto diventa il picchettatore di fatto! Il pio osservante sarà il primo distruttore!

Primo passaggio. La percezione – avvertita per evidenza di cose ma non sottoposta all’elaborazione del lutto – che alcuni aspetti del ruolo andrebbero ripensati, rimane un sospetto lasciato a mezz’aria. In quegli aspetti (isolati in una cortina di omertà) non ci si crede più di tanto: se non proprio avvertiti obsoleti, si dubita – silenziosamente – della loro attualità e capacità di produrre, a tutt’oggi, energia di vita. Per esigenze di ruolo (!) si dicono e si ribadiscono (forse anche troppo!) ma con l’amaro sentore che ormai sono al tramonto o almeno soggetti a forti difficoltà di ricezione.

Secondo passaggio. Le richieste agli altri di assunzione di quei ruoli si fanno blande perché chi le fa ha perso la fiducia nella qualità rigenerante e propulsiva del ruolo che propone. Le proclama per scrupolo di obbedienza, senza convinzione, pronto – lui per primo – a chiudere un occhio (e anche due) se le richieste vengono disattese, perché la dis-identificazione opera già silenziosamente in lui ed è da lui subita anche se non legittimata. Forse colpevolizza chi trasgredisce, ma non si chiede la ragione della trasgressione (come mai all’economo del seminario arrivano bollette telefoniche astronomiche? A chi telefonano i suoi seminaristi?), né mette le condizioni perché essa cessi. È un colpevolizzare per esigenze d’ufficio, in una non detta complicità sorniona con il trasgressore che non è né di approvazione né di dissenso, ma solo prendere atto di un modello che non funziona più, ma non si può dire, quindi né da accettare né da cambiare. È qui che di solito inizia la reazione isterica anziché il lutto. L’educatore – ad esempio – si rassicura se il seminarista accetta (subisce?) senza verbo proferire i modelli che lui propone; si insospettisce se quello chiede spiegazioni; ma lui stesso ne fa oggetto di barzelletta in refettorio e il tema (prete domani: sì ma come) rimane aperto ad ogni possibile evoluzione.

Terzo passaggio. Il nostro personaggio, fin qui ossequioso, ma tacitamente perplesso della tradizione che già ha svuotato della qualità vincolante, incomincia adesso a guardare con tacita simpatia quelli che la trasgrediscono e la criticano apertamente. Li osserva con occhio flemmatico (o scandalizzato per motivi d’ufficio), ma – sott’acqua – con loro si identifica e del boicottaggio attivo (di quelli) e passivo (del suo) gode sotto i baffi, contribuendo indirettamente a distruggere quella tradizione.

Quarto passaggio. Da questo picconaggio della tradizione si sente risarcito per le prescrizioni passate che ha dovuto subire. L’amore per la madre buona si mescola con la rabbia per la madre matrigna («Per me, ormai i giochi sono fatti, ma fare io proposte vocazionali ai miei giovani: no grazie»). Di quella madre spera nascostamente la morte e con chi le infligge dei colpi mortali si sente tacitamente solidale. Lui, vittima, diventa il persecutore o, se non ha la forza di reggere la colpa, il complice dietro le quinte del persecutore, senza aver fatto la scelta di voler essere complice. I più strenui difensori della intangibilità del ruolo sono i suoi più acerrimi distruttori. È il coraggio di porre domande esplorative a spezzare questo legame sado-masochista.

Si dirà: tutta roba inconscia, quindi farneticazioni dello psicologo. In realtà, inconscia non lo è troppo. Perché non si interviene in modo diretto e chiaro? Perché non si affronta il problema anziché fare la teoria del problema? Perché si parla per allusioni senza esplicitare a chi e a quale situazione ci si sta riferendo? Perché i superiori alle grida del prete che affoga rispondono «Fai come puoi», o reagiscono in modo relativista agli evidenti scandali perpetuati dai sudditi, tanto più impotenti (ma meglio sarebbe dire sadisticamente soddisfatti) quanto più roboanti proclamatori di una teoria? Perché piacciono così tanto i preti fedeli: perché ligi al dovere (ma come apprezzare chi è ligio a qualcosa di demodé?) o perché deboli e più facilmente manipolabili? Questa libido matricida non risparmia neanche i riformisti: ci sono preti che sostengono ad oltranza i diritti delle minoranze «perseguitate» (coniugi separati e risposati, omosessuali, seguaci di altre religioni, pensatori eterodossi…). Li sostengono con tale foga ed immedesimazione che a volte supera quella degli interessati stessi. Domanda: stai difendendo il loro bene, o riscattando te stesso da una madre che è diventata matrigna per te? Quella dedizione così morbosa agli irregolari, fino a sposare la loro causa più di quanto loro stessi facciano, è per tenerli in seno alla famiglia o tuo canale di contestazione della legge di famiglia?

La strada del dubbio (che non è la strada del dissenso) è meno profanatrice di quel che si pensa: obbliga al lavoro della giustificazione, permette l’affiorare di domande esplorative che invitano a sospendere temporaneamente l’adesione ad un’idea per ricuperarla su basi più mature, favorisce il dialogo delle interpretazioni che rimane all’erta per accogliere ogni segno che ribadisca la verità, ma la obblighi a rivelarsi ulteriormente. 

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