L'inconscio e la fede. Un apporto da Jacques Lacan


 

Davide D’Alessio
Tredimensioni,  2(2005)2, 139-14


Il rinnovamento nella comprensione della rivelazione delineato dal concilio Vaticano II nel documento conciliare Dei Verbum (1965) ha permesso alla riflessione teologica successiva di riscoprire la fede come atteggiamento complessivo dell’uomo. La rivelazione non è soltanto «locutio Dei» che svela la «verità rivelata» bensì Gesù stesso, il Figlio di Dio vedendo «il quale si vede il Padre»; e la fede non è soltanto assensus fidei ma il credere che scaturisce dall’incontro con il Signore risorto. Ancora, con un’espressione che suona come ossimoro rispetto al linguaggio teologico tradizionale, la fede non è solo «ex auditu», ma anche «ex visione»: come attesta Gesù stesso nel dialogo con il cieco, la fede nasce tanto dall’ascoltare quanto dal vedere.


Fede e spazio umano

Nella teologia postconciliare questo ha comportato un cambio di prospettiva: ora la preoccupazione non è più quella di dimostrare che la fede sia «sensata», bensì quella di mostrare che la fede sia «sensibile». In altre parole, la riflessione sulla fede non si dispiega più unicamente in relazione alla ragione filosofica o scientifica, ma anche e soprattutto in riferimento a tutte quelle figure antropologiche con le quali la fede intrattiene obiettivamente una relazione ma che, nel confronto con la cultura illuminista, erano state squalificate come «irrazionali», e nella crisi con il protestantesimo (XVI secolo) e nella controversia sulla mistica (XVII-XVIII secolo), erano apparse «pericolose» per l’ortodossia della fede: l’affetto, il sentimento, l’emozione, il desiderio…

Riprendere familiarità con questi temi significa per la teologia riprendere pazientemente confidenza con la propria storia ma anche disporsi al confronto con quelle «scienze umane», e tra queste in particolare la psicoanalisi, che nel frattempo hanno assunto come oggetto del proprio ambito di ricerca quello spazio umano disertato dalla cultura razionale (filosofica, teologica e scientifica): l’inconscio.

Il confronto critico con l’istanza psicoanalitica s’impone alla teologia, se essa vuole valorizzare la fede come atteggiamento complessivo dell’uomo senza limitarsi a un generico ampliamento del proprio vocabolario.

 

La psicoanalisi di Lacan

In queste poche pagine vorremmo avviare questo confronto scegliendo come interlocutore Jacques Lacan (1901-1981). Dall’ascolto della sua lezione vogliamo raccogliere elementi per tracciare una fenomenologia della fede capace di «integrare» l’inconscio.

 

Uno sguardo d’insieme

Ogni bambino – secondo Lacan – tra i sei e i diciotto mesi vive un’esperienza decisiva per la sua costituzione psichica, esperienza che lo psicoanalista francese già nel 1936 definiva «stadio dello specchio», riconoscendolo come «il primo perno» del suo pensiero.

Si tratta in sostanza di questo: di fronte all’im­magine riflessa nello specchio il bambino, fino a quel momento ancora incapace di muoversi autonomamente, percepisce uno scarto tra il proprio corpo reale che gli appare «frammentato» (in quanto non è ancora in grado di coordinarlo) e l’immagine totale di sé riflessa nello specchio. In questa situazione il bimbo «deve» decidersi, deve cioè decidere chi essere: questo al di qua dello specchio oppure quello al di là di sé che vede riflesso nell’immagine. Scegliendo è come se il bambino si dicesse: «Questo sono io». In questo modo sorge l’io del piccolo! Nello stesso momento, però, il bambino impara anche a riconoscersi (identificandosi) nell’immagine riflessa e, contemporaneamente, inizia ad avvertire il desiderio di essere anche diverso (migliore) di quello che si vede. È come se, dopo aver detto «questo sono io», vedendosi nello specchio dicesse: «E questo sarei io?». Nello stesso momento in cui sorge coscientemente l’io di fronte all’immagine sullo specchio, sembra sorgere anche nell’in­conscio un altro soggetto animato dal desiderio di poter incontrare quell’im­magine ideale (balenata per un istante di fronte agli occhi) nella quale potersi riconoscere.

La situazione descritta come stadio dello specchio non rappresenta semplicemente un momento cronologicamente definito nella crescita umana, bensì un paradigma per comprendere quello che accade in ogni esperienza: l’uomo si trova sempre di fronte all’altro guidato dal desiderio di incontrare l’immagine ideale del suo desiderio, che Lacan chiama anche l’«Altro».

Questa situazione si verifica già nella relazione infantile tra mamma e bambino: contrariamente all’interpretazione (freudiana) classica, la relazione materna non è affatto idilliaca, tutt’altro! È infatti esposta al rischio che ciascuno dei due soggetti (la madre e il bambino) si illuda di poter riconoscere nell’altro l’incarnazione dell’Altro del loro desiderio. Nessuno, secondo Lacan, può realmente incarnare l’Altro: l’Altro è l’eterno assente attorno a cui si struttura l’esperienza umana, come il vuoto attorno a cui un vasaio modella il proprio vaso. Per questo motivo, questa relazione (come ogni altra relazione duale) è estremamente pericolosa sia qualora uno dei due soggetti pretenda di soddisfare il desiderio dell’altro, sia qualora uno dei due intenda riconoscere l’Altro nell’altro.

È possibile sfuggire a questa trappola solamente qualora compaia una terza persona che possa rappresentare per entrambi, la mamma e il bimbo, l’Altro del loro desiderio. Questa persona è il padre. Il papà può saziare il desiderio della mamma, distogliendola dall’orientarlo verso il figlio, e contemporaneamente, proponendosi come immagine ideale (quale figlio non ha pensato almeno una volta in vita: «da grande farò come il mio papà»?) rilancia il desiderio del bimbo. In seguito il figlio dovrà scoprire che neanche il padre incarna l’Altro del suo desiderio, ne è solo un simbolo, non però uno qualunque, bensì quello «primordiale»: d’ora in poi il bimbo cercherà attorno a sé qualcuno che, come il padre, sappia farlo «sognare», rimandargli l’immagine ideale in cui potersi riconoscere.

Il desiderio, sorto di fronte allo specchio, di incontrare l’Altro in cui riconoscersi è diventato, grazie al confronto con il padre reale, desiderio di incontrare colui che porta il «nome-del-Padre». Questa tensione rappresenta il segno che lo stadio edipico imprime indelebilmente nel(l’inconscio del) bambino.

 

Zoom sull’inconscio

Ora che ci siamo familiarizzati con l’intuizione fondamentale della psicoanalisi lacaniana, cerchiamo di precisare meglio il ruolo dell’inconscio nella formazione della coscienza.

Seppur breve, la sintesi precedente ci permette di intuire che nel pensiero di Lacan l’inconscio non si contrappone semplicemente alla coscienza come l’oscurità alla luce, il caldo al freddo o, fuor di metafora, l’irrazionale al razionale, l’istintivo all’intellettuale. Iniziamo però col raccogliere sinteticamente gli elementi che Lacan ha individuato come costitutivi di ogni esperienza – l’io, il Soggetto dell’inconscio (soggetto del desiderio), l’altro (immagine), l’Altro (l’immagine ideale) – organizzandoli egli stesso in uno schema che chiamava «il mio piccolo quadrato» e «sistema di orientamento nella nostra esperienza»:

 

(Es) S (soggetto dell’inconscio) --->

a (l’altro)


Io (altro per l’altro) <------------------


A (Altro del desiderio)

 

Il «baricentro» di questo quadrilatero è costituito dal desiderio che Lacan, lungi dall’identificarlo con il piacere (secondo una concezione vagamente psicoanalitica) o con un generico sentimento dell’infinito (secondo una concezione vagamente religiosa), sulla scia di Hegel, descrive come desiderio di riconoscimento cioè desiderio di essere riconosciuti dall’altro e desiderio di riconoscersi nell’altro.

Ora, se teniamo presente contemporaneamente che il luogo del desiderio è l’inconscio e il desiderio è continuamente proteso a riconoscersi nell’Altro percepito però sempre e soltanto nell’incontro con l’altro, allora possiamo descrivere l’inconscio come il luogo in cui noi stringiamo un legame con l’Altro legandoci all’altro. Più semplicemente, l’inconscio permette all’uomo di intuire che nella vita è decisivo il legame con l’Altro, oggetto innominabile e sempre assente del desiderio. E l’uomo diviene coscientemente «io» solo di fronte all’altro, assumendo responsabilmente il legame con l’altro, già maturato nell’inconscio, e quindi riconosciuto come figura dell’Altro. In questo senso l’io si rivela come «sintomo» di una relazione intrattenuta con l’Altro dell’altro, nata nel mo­mento in cui ci si è sentiti riconosciuti nel proprio intimo e quindi capaci di riconoscersi in lui. D’altro canto, la coscienza permette all’uo­mo di riconoscere esplicitamente i legami di cui vive inconsciamente, consentendogli di assumerli responsabilmente, mettendoli alla prova.

 

Spunti per una fenomenologia della fede

Nell’orizzonte del nostro interesse, quello di delineare una fenomenologia della fede integrativa dell’inconscio, raccogliamo dalla psicoanalisi di Lacan la suggestione a pensare che l’atto cosciente (quello che si manifesta quando ci esprimiamo in prima persona: «io penso…», «io credo…») è sempre la traduzione di un legame che, nell’inconscio, abbiamo iniziato a stringere con l’altro che ci è apparso l’Altro del nostro desiderio.

In questa prospettiva, il credere in Gesù è sempre l’espressione di un «affetto» che nasce dall’incontrare in Gesù quell’immagine ideale (avvertita in tante esperienze precedenti e quindi custodita nel nostro inconscio in forma frammentaria, ma non menzognera) nella quale poterci riconoscere.

La narrazione neotestamentaria e l’esperienza dei santi sembrano confermare questa descrizione della fede. Pensiamo al cieco nato, a Zaccheo, alla donna adultera, a Simone... nell’incontro con Gesù. Queste persone incontravano uno sguardo capace di vedere in loro qualcosa che nessun altro (neppure loro stessi) sapeva più vedere: Gesù riconosceva in loro dei figli di Dio! In questo modo, Gesù offriva loro un’immagine di se stessi migliore di quella che essi stessi coltivavano, riaccendeva in loro il desiderio di essere migliori, corrispondendo sempre di più all’immagine dell’Altro che Gesù aveva evocato. In altre parole, incominciando a riconoscersi in Gesù, il peccatore iniziava a credere di aver incontrato proprio Colui che nel suo inconscio da sempre desiderava incontrare, seppure in precedenza lo avesse solo intravisto e subito smarrito. E, nello stesso tempo, sentiva risvegliarsi il desiderio di convertirsi a tale sguardo, di seguirlo, per non perderlo di nuovo!

Qualcosa di simile ha caratterizzato anche l’esperienza spirituale di quei santi che hanno descritto la loro conversione come un’esperienza contraddistinta da un continuo incontro con persone o situazioni che ai loro occhi sapevano rievocare qualcosa di originario, intuito in esperienze precedenti e inizialmente accantonato, ma a loro insaputa custodito nel loro stesso inconscio: in un primo momento si sono sentiti smarriti, lacerati tra la tentazione di tirarsi indietro e il desiderio di cedere alla forza d’attrazione; quindi, ma solo lentamente e spesso dopo molte esitazioni, hanno «ceduto» ai richiami della verità che tornava a presentarsi davanti ai loro occhi e per non correre il rischio di perderla e così perdersi di nuovo, l’hanno abbracciata con tutto se stessi. Così, se in un istante, come Francesco, hanno avvertito che «c’è più gioia nel dare che nel ricevere», hanno scelto la povertà; se, come Giovanni della Croce, hanno scoperto che Dio è tutto, hanno scelto il nada per avere il todo; se, come Agostino, hanno trovato consolazione in Dio, hanno cercato il deserto e il silenzio…

Ma -dobbiamo aggiungere- credere in Gesù non significa soltanto questo, non significa soltanto riconoscersi in lui. In molti passi del vangelo, soprattutto nei sinottici, Gesù non sembra accettare questo riconoscimento se disgiunto dall’apprezzamento dell’annuncio del vangelo del Regno – «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18) – e chiede piuttosto di volgere lo sguardo verso il Padre: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48); «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36); «Nessun altro conosce il Padre se non il Figlio» (Mt 11,27); «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Nessun volto dunque sa donarci un riflesso del volto del Padre se non quello del Figlio. E tuttavia, Gesù è pronto a dare la vita, disinteressandosi completamente di se stesso, perché il vangelo del Padre sia creduto.

Credere in Gesù è dunque riconoscersi in Lui, ma riconoscersi in Lui (nel Figlio) deve significare riconoscersi figli del Padre, riconoscendolo come l’interlocutore segreto che da sempre attrae i passi dell’uomo nella ricerca dell’Altro del suo desiderio.

In questa prospettiva la fede non si presenta solo come la manifestazione di un affetto che sta nascendo in noi verso il Signore, ma l’accoglienza di un affetto (le cui tracce sono sedimentate nel nostro inconscio) che ci è stato donato prima ancora che noi lo desiderassimo o anche solo ce ne accorgessimo. È l’esperienza, attestata sia nelle pagine bibliche che nelle testimonianze della letteratura spirituale, di scoprirsi amati come figli fin dal grembo materno.

 

Conclusione o nuovo inizio?

Non è possibile immaginare realmente una conclusione alla riflessione proposta, poiché questi pensieri non rappresentano se non una suggestione a elaborare uno studio sulla fede più attento alle ricerche germogliate nel campo delle scienze umane.

Questo studio non intende suscitare la fede né può pretendere di creare le premesse dell’atto di fede – la fede, infatti, nasce sempre e soltanto dall’incontro con il Signore – e neppure può sottrarre la teologia dal confrontarsi con l’evento originario della fede cristiana, la fides di Gesù, o dall’ascolto della propria tradizione teologica e spirituale.

Questo confronto critico, però, proprio facendo luce sulle dinamiche antropologiche, può consentire alla teologia di approfondire la comprensione dell’esperienza della fede, rinnovandola rispetto all’analysis fidei dell’apologetica tradizionale. Il confronto, certo, deve essere, peraltro, critico: non si tratta di assumere in maniera generica termini o concetti formalizzati nel contesto di altre discipline. Su queste premesse, il confronto con la psicoanalisi di Lacan rappresenta – e abbiamo cercato di mostrarlo – uno spunto suggestivo a riflettere sul ruolo svolto nell’inconscio dal desiderio nella strutturazione della coscienza e, per quanto ci riguarda, della coscienza credente (ciò che più comunemente chiamiamo «fede»).

Quest’impostazione ci ha permesso di accennare alla possibilità di descrivere la fede proprio partendo dal desiderio: dapprima come il riconoscersi in Gesù, quindi come il riconoscersi, proprio riconoscendosi nel Figlio, figli del Padre. Tutto questo necessita di molte precisazioni e chiarificazioni, certamente. E tuttavia rappresenta già un inizio.

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