Etica e antropologia


Editoriale
Tredimensioni 2(2005) 1, 4-11


 

A scuola, un gruppo di studenti sta discutendo sulla solidarietà. L’insegnante spiega che ci sono persone che rischiano la vita pur di portare aiuti a chi muore di fame. Lui dava per scontato, anche per il suo uditorio, che questi generosi fossero da catalogare nella categoria di brava gente. Mentre magnificava i sacrifici e il pericolo di tanto altruismo, uno dei ragazzi candidamente interviene: «peggio per loro; potevano stare a casa».

Un parroco incontra due ragazzi, sposati da appena un anno e alle prese con le prime crisi coniugali. Ai suoi tentativi di convincerli a soprassedere alla separazione in nome della fedeltà anche nella cattiva sorte, quelli replicano: «rimanere ancora insieme in questo modo sarebbe fedeltà?! Ma questa è ipocrisia! Perché stare insieme se non ci amiamo più? Niente falsità: separarci è un atto di onestà».

Questi e molti altri esempi ci avvertono che lo scarto fra le generazioni sul discernimento del bene e del male è davvero vertiginoso. Il fenomeno emerge a vista d’occhio quando un gruppo, eterogeneo per età e formazione, si ritrova a discutere lo stesso tema. In pochi minuti, appare chiaro come ogni generazione usi peculiari porte d’ingresso e soluzioni al tema proposto.


Dalla moralità alle moralità

Certo, i tempi cambiano. Ma che cosa cambia?

Evidentemente, cambiano i costumi. Basta aprire gli occhi e le orecchie per constatarlo.

E poi, cambiano i sistemi etici di riferimento e anche questo è abbastanza evidente. Il termine etica deriva da ethos che significa ambiente adatto alla vita di una persona. L'ethos è il luogo caldo nel quale ci sentiamo a nostro agio, riuscendo finalmente ad essere noi stessi. L’identificazione di questi luoghi e il tragitto per raggiungerli cambia da generazione a generazione. Per il nostro studente quel luogo si chiama custodia di sé, per il suo insegnante dono di sé, ciò che per uno è martirio per l’altro è suicidio cercato.

Oggi vengono proposti molteplici luoghi caldi, fra loro differenti e contraddittori ma tutti con la stessa pretesa di garantire calore. È finito il monopolio di un’etica unica e… cristiana/cattolica. Assistiamo al passaggio dalla moralità alle moralità. A nostro figlio che si sposa non possiamo più dire di imitare la tradizione di famiglia perché anche nel nostro benemerito casato si danno diversi modelli di famiglia, da quella regolare a quella gay.

Riteniamo, tuttavia, che questo cambiamento dei costumi e dei criteri etici, pur vistoso e dilagante, non sia il più preoccupante. Lo interpretiamo una conseguenza, un effetto dovuto e inevitabile, addirittura logico, che c’è e non potrebbe non esserci. La conseguenza di un cambiamento ben più preoccupante.


Dimmi come ti pensi e ti dirò come agisci

Per noi il vero cambiamento è nell’antropologia di fondo, nel modo con cui l’uomo delle diverse generazioni comprende stesso e si può riconoscere vivo e degno. Le risposte alla domanda «che cosa è bene che io faccia» sono cambiate e sono molte. Ma, a monte, è cambiato il percorso per comprendersi, per dire, «ecco, io sono io; io esisto, sono degno, valgo; mi sento felice, realizzato, onesto…». Il ventenne si pensa e si dice in modo molto diverso dal sedicenne e in modo ancora diverso dal quarantenne.

Il cambiamento nell’etica (e nei costumi) segue a ruota. La vertigine dello scarto fra le generazioni non è solo etica (che cosa è bene fare) ma antropologica (su che cosa mi baso per dire che io sono degno? ). Spiegare al nostro simpatico ragazzo che lo spirito di volontariato è una cosa possibile, ammirabile e perfino buona, ci può anche riuscire, ma spiegargli che è anche bella per lui, condizionante anche la sua dignità, quindi via imprescindibile per ritrovarsi in pienezza, non sarà possibile finché lui non cambia la sua antropologia di riferimento. Spiegare a dei genitori che hanno lavorato tutta la vita per dare una laurea al loro figlio, che quel figlio sarà più felice se lo lasciano seguire la sua aspirazione a diventare frate è addirittura impossibile: è come chiedere ad un italiano di mettersi improvvisamente a leggere il cinese. Oggi l’educazione è abbastanza difficile per ragioni etiche ma soprattutto per ragioni antropologiche. La spiegazione che l’uomo si dà di se stesso condiziona la sua sensibilità etica e, in seconda battuta, i suoi costumi. Cambiando la spiegazione di sé cambia (è favorita o preclusa) la spiegazione di ciò che nella vita è importante. Lo stesso vale per l'esperienza religiosa. L’accesso dell’uomo a Dio è strettamente collegato all’accesso dell’uomo a se stesso: come l'uomo si spiega a se stesso e quale spazio vuole concedere a Dio sono due problemi collegati.


Tre letture del cambiamento

Perché le forti emozioni di un incontro spirituale di massa o le importanti esperienze di volontariato stentano, poi, a prolungarsi in un impegno definitivo e in uno stile abituale di dono di sé? Come mai capita che anche i ragazzi nutriti in ambienti cattolici abbiano, da sposati, le stesse difficoltà e modi di reagire ad esse dei giovani cosiddetti «lontani»? Come mai molti si battono per un radicalismo evangelico ma con la stessa intensità battono strade che tali non sembrano essere? Perché molti adulti, pur professando alti valori, non hanno poi il coraggio di concretizzarli nella vita privata o pubblica quando si tratta di rimetterci?

Di queste contraddizioni si possono fare tre letture.

•    Interpretazione moralista, quella che fa appello alla cattiva volontà. «Oh! giovani immorali ed egoisti! Avete perso il senso dei valori e seguite solo il vostro piacere e l’edonismo...», «e voi, cinquantenni imborghesiti, dove avete gettato i vostri antichi progetti di rinnovamento?». Chi fa questi ragionamenti parte dal presupposto (oggi non più dato anche se ci dispiace) che tutti condividono e dovrebbero condividere la stessa definizione di vita buona e se qualcuno non lo dimostra con il suo fare buono, significa che è un trasgressore e un rinnegato di quegli ideali che pur tuttavia abitano in lui. Ma l’interessato, lui – quello sciagurato che ai nostri occhi appare un apostata – si sente del tutto legittimato ad essere come è: non perché reprime in sé quella voce valoriale da noi presupposta presente anche in lui ma per la più semplice ragione che quella voce lui, dentro, non la sente.

•    Interpretazione psicologica. Fa appello alla incapacità personale: «i giovani d'oggi sono immaturi e fragili, incapaci di scegliere e resistere» e « i cinquantenni: narcisisticamente attaccati a difendere la loro immagine». Come prima, si presuppone che i codici di riferimento siano condivisi e quando disattesi nella pratica, lo è, questa volta, per difetto psichico anziché per immoralità. In questo caso si taccia per problema psicologico ciò che invece è un diverso percorso nel formarsi (o deformarsi) la coscienza. Chi ragiona così, per quei deboli invoca psicoterapie riabilitative da pronto intervento. «Il seminarista sogna ancora le ragazze? Vedi come è fragile? Ha bisogno dello psicologo!», quando poi risulta che la colpa non è dei suoi conflitti inconsci ma del non aver ancora capito perché non si può farlo («tanto non faccio male a nessuno!»).

Le due interpretazioni hanno lo stesso presupposto. «Noi» pensiamo che «loro» abbiano e debbano avere gli stessi nostri principi per cui, se non li attuano, vuol dire che – loro, non noi – sono degli smarriti: per cattiveria o per fragilità. Succede invece sempre più spesso che c’è gente che parte da principi differenti dai nostri e allora le loro deduzioni sono coerenti ai loro principi. Né cattivi, né fragili, ma logici secondo la loro logica.

•    Interpretazione antropologica. Fa appello all’antropologia di riferimento che il soggetto usa per comprendersi. In questo caso, se qualcosa di nuovo e di diverso appare nel sistema etico, vuol dire che c’è un nuovo sottofondo culturale dal quale la novità è scaturita e in questo particolare contesto quella novità è più che comprensibile, coerente e logica: strano sarebbe se non ci fosse. In questa interpretazione, rispetto al comportamento, si fanno «due passi indietro». Come prima, dal comportamento alle ragioni che lo hanno messo in essere, e, in più, dalle ragioni che lo hanno messo in essere alla visione antropologica di cui quelle ragioni sono figlie. Se il nostro quindicenne reagisce così vuol dire che ragiona così e se ragiona così vuol dire che lui ha una certa definizione di vita. Non che è cattivo o fragile. I problemi morali e psichici esistono ma possono essere l'effetto sintomatico della difficoltà a definire correttamente la propria umanità.


Agire sulle premesse

Nell’assistere al passaggio dalla moralità alle moralità, o diventiamo critici verso quella che non è la nostra moralità (ma con quale potere di convincimento?) o relativisti (ma con quale influsso propositivo?), oppure (è meglio!) ci sforziamo di capire (che non vuol dire approvare) i nuovi tracciati che l’uomo d’oggi percorre per dirsi. L’educazione dovrebbe avanzare fino a questo territorio: favorire una corretta impostazione della coscienza anziché limitarsi a valutare ciò che quella coscienza ha saputo o potuto dedurre.

Alcuni esempi di azione educativa sulle premesse:

- «Quanto tempo dare alla TV?». Dipende da che cosa tu intendi per mass-media: canale di trasmissione culturale, evasione, indottrinamento, informazione… A seconda della risposta userai il telecomando in modo diverso.

- «Voglio vivere bene ma come si fa?». Dipende da cosa intendi per vivere. Se per te la vita è una sequenza in progressione verso un fine, allora guarda in avanti. Se è saper estrarre ciò che serve al gioco del momento, allora sii lesto nelle mani.

- «Ma essere contento è un mio diritto!». Dipende da che cosa intendi per benessere: pace interiore che deriva dalla retta coscienza oppure abilità nel cascare sempre in piedi e saltarci fuori comunque.


Le quattro domande antropologiche

Riflettere sulla visione antropologica che ci guida significa estrarre dal nostro modo di agire e valutare gli indizi che ci facciano capire in che cosa, per noi, consiste l’essenza del vivere. Più praticamente, addestrarsi a vedere il nostro modo di comportarci in un modo anziché in un altro come l’evidenza pratica della risposta alle quattro domande che costituiscono un sistema antropologico:

a) siamo esseri liberi o spinti?
b) che cosa ci motiva ad agire?
c) che fine ci prefiggiamo?
d) cosa significa essere realizzati?

A seconda della risposta che diamo, sapremo che cosa per ciascuno di noi la vita è, ci può dare e noi possiamo ambire. Sapremo, cioè, la nostra antropologia pratica di vita.

Un signore appassionato di hot line fino a pagare bollette telefoniche astronomiche sosteneva che:

a) quando scatta la voglia di sesso non si può resistere,
b) l’atmosfera ambigua di quelle conversazioni erotiche è per lui particolarmente eccitante,
c) in quelle conversazioni anonime può dire cose che nella vita concreta non direbbe mai,
d) è un modo comodo di conversare senza compromettersi.

Se queste rimangono le sue risposte alle quattro domande antropologiche, per lui fare così è normale e morale e non farlo più è difficile: potrà anche astenersi per obbligo o per paura ma gli sembrerà di andare contro se stesso e prima o poi al telefono erotico ritornerà.

Provate, invece, a usare la hot line con l’antropologia di riferimento che vi dice:

a) io sono un essere libero,
b) per scegliere,
c) un bene,
d) che sia totale.

Se a questi dati ci credete davvero, le vostre telefonate sexy si accorciano di molto e comunque non le sentirete come il massimo della felicità.

Come si vede dagli esempi, per antropologia non intendiamo un corredo di idee ma il tipo di sensibilità a noi accessibile. Ad antropologia povera corrisponde sensibilità ristretta.

Qualsiasi antropologia va bene, oppure per garantire che il luogo indicato sia davvero caldo deve contenere degli elementi irrinunciabili, universali, transculturali? Ad antropologia ristretta corrisponde una pedagogia menomata? L'antropologia seguita è una scelta del singolo da rispettare comunque o va valutata in termini di rispetto che essa porta per la globalità della persona umana: quanto traduce, riduce, banalizza, rispetta, tradisce… l’essenza dell’uomo? Le varie antropologie oggi sul mercato si sfidano e annullano a vicenda oppure possono ritrovarsi in una visione di uomo che rispecchi nel modo più completo possibile ciò che egli è in natura? L'antropologia del vangelo è una fra le tante o la più ampia e completa? Il problema è acuto per il dialogo fra le generazioni di una stessa cultura e fra le culture.


L’antropologia fornisce i colori

L’antropologia che ispira il nostro modo di essere nel mondo non è il manuale fra le mani e risucchiato dal cervello. È una disposizione spontanea (e spesso non verbalizzata né conosciuta) a sentire la vita. La possiamo immaginare come uno strumento a noi interno che fabbrica immagini ogni volta che noi veniamo in contatto con qualcosa. Quando tocchiamo qualcosa, quello strumento emette un’immagine di quella cosa. Che, però, non è una fotografia ma una colorazione personalizzata della cosa. Alla cosa in sé la nostra antropologia di riferimento aggiunge una tonalità che fa apparire quella cosa bella/brutta, da cercare/evitare, sensata/sciocca, buona/cattiva, suicidio/martirio, fedeltà/ipocrisia…. La cosa (visibile) viene collegata ad un significato (invisibile) e a seconda del tipo di collegamento (colore) si avrà una particolare predisposizione della persona verso la cosa. La fabbrica dei colori è, appunto, l’antropologia di riferimento (per questo la cocaina eccita nel drogato un’irresistibile ricerca mentre per il poliziotto è oggetto da distruggere). Nel caso del nostro studente quindicenne, lui ha colorato la cosa (volontariato in terre pericolose) con una tonalità nero funerale per cui commenta come insensata quella scelta che invece, per il suo insegnante, è il massimo di vita perché l’ha colorata con tonalità luminose. Colori diverse, cioè antropologie diverse. Finché quel ragazzo non colora diversamente, convincerlo è impossibile. Per Giovanni l’anello nuziale è il coronamento del sogno d’amore, per Mario l’inizio della galera. Per Maria la fedeltà nella buona e cattiva sorte è sfida eccitante, per Monica roba vecchia d’altri tempi. Se il colore della povertà per me è negativo, attentato alla dignità del mio, non vivrò mai da povero anche se ho fatto la tesi di dottorato sull’obbedienza. L’antropologia, come la pubblicità, associa la cosa (visibile) al significato (invisibile). Se l’associazione mi suona bene, compero la cosa, se suona male la evito, se non suona per niente la ignoro.

Chissà che colore ha l’antropologia cristiana agli occhi di tanti... ?


Antropologia e sistema simbolico

L'etica, abbiamo detto, dipende da un’antropologia di fondo perché, ora possiamo aggiungere, quella’antropologia le fornisce il sistema simbolico senza il quale le indicazioni etiche non possono attivarsi.

Le religioni offrono questo sistema simbolico. Ad esempio, per la religione cristiana Dio si è incarnato nella storia e, di conseguenza, il cristiano può interpretare la propria storia come storia relazionale con Lui dentro ad una comunità e, secondo passo, agire in un certo modo con se stesso e la comunità. Questo sistema simbolico fornitogli dalla sua fede gli servirà da riferimento per dire: questo è sensato e quello no, questo è buono e quello è cattivo, così sono degno e così indegno.... Se quel cristiano rinnega la sua fede o sposa una musulmana, un'atea, una buddista..., si vedrebbe obbligato a re-inventare di conseguenza la sua simbolica. Cambiando l’antropologia, cambia il sistema simbolico, cambia l'interpretazione del proprio vissuto e cambiano l’etica e il comportamento.

Le diverse generazioni hanno criteri d’azione differenti e/o opposti perché differente e/o opposto è il sistema simbolico. Di conseguenza, ciò che per me è generosità, per il ragazzo è stupidaggine; ciò che per me definisce la fedeltà per l’altro è la definizione dell’ipocrisia.... Il problema, lo ripetiamo, è di antropologia e di correlato sistema simbolico, e non di cattiva volontà o incapacità psicologica.

Antropologia e vita di successo. La bellezza del quadro finale dipende dalle dita del pittore ma anche dalla varietà dei colori dai quali, sulla tavolozza, quelle dita possono attingere.

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