Interiorità: luogo da spiegare ma soprattutto da comprendere


Editoriale 
Tredimensioni 1(2004) 3, 228-234   



Per l’immaginario popolare lo psicologo è lo strizzacervelli che, strizza strizza, gratta gratta, arriva al grande perché esplicativo e redentivo dei traumi altrui. Qui, il colpevole è Freud. Ci ha introdotto all’arte educativa con un passo sbagliato perché ha usato due metafore non molto azzeccate. La prima è l’immagine dell’archeologo che, pennellino in mano, soffia sulla polvere del tempo per riportare alla luce la verità, quella che si è giocata nei primi anni di vita, il trauma originario, la scena primordiale, il tocco d’avvio dei guai successivi. Il terapeuta archeologo sarebbe tanto più bravo quanto più riesce a soffiar via, con il pennello della spiegazione, le polveri dell’oblio e del passato. La seconda metafora è il puzzle. Bisogna trovare tutti i pezzi, se manca l’ultimo, l’assemblaggio si rompe. Il terapeuta, nuovo Diogene con la lanterna in mano, finalmente, ha trovato l’ultimo pezzo: voilà, mistero svelato.

Se gli va bene, dopo aver raccolto dal cliente l’ammirato «Oh! Adesso capisco!», può assentarsi per un attimo: l’indottrinato paziente può andare avanti da solo e, lui, estrarre dalla scatola il suo buon sigaro avana se dai gusti laici o, la coccarda del grande guru se di indole spirituale. Se gli va male e il paziente risponde evasivo e corrucciato, vuol dire che quello sta resistendo e allora gli spiega con una nuova spiegazione perché ha rifiutato la sua precedente spiegazione. A questo punto, la lotta si riscalda e di solito, la zampata lascia il segno. Quella dello psicologo: «tu resisti». Quella della guida spirituale: «tu non sei disponibile alla volontà di Dio».


Spiegare è capire i dati, comprendere è farli vivere

Affinché ci sia vero contatto terapeutico, bisogna che il cliente, prima, abbia raggiunto un sufficiente contatto con i suoi veri sentimenti. Se è impegnato a dirsi come non è, non può contemporaneamente comunicare in modo autentico con l’altro. Per questo, nella fase iniziale, la spiegazione ci vuole. Prima di partire per un viaggio comune è meglio presentarsi senza maschera: interrogare, chiedere, indagare, intervistare…, per conoscere non solo i comportamenti altrui (che cosa) ma le motivazioni, il perché, appunto, secondo lui/lei fa, pensa e agisce così piuttosto che in un altro modo. Altrettanto utile è, a cammino intrapreso, domandare spiegazioni e spiegare quando qualcosa si inceppa o si aprono capitoli di vita finora inesplorat

Ma a carte messe sul tavolo (almeno qualcuna importante), le si fanno girare. È qui che incomincia il cammino. Il rapporto cambia: il terapeuta da intervistatore diventa accompagnatore, il cliente da intervistato passa al ruolo di attore principale. I dati raccolti e le correlate spiegazioni (psicodinamiche e psicogenetiche) già ipotizzate e finora usate per capire (almeno come prima ipotesi) che cosa c’è, perché c’è e da dove viene quel che c’é, adesso vengono usati come materiale non più per nuove spiegazioni ma dal quale estrarre energia novella per tenere vivo il viaggio della vita. Consci (più o meno) del presente e passato, ora si tratta di servirsene per organizzare il futuro. Quei contenuti già spiegati vengono, per così dire, rimessi in circolo, rimescolati, ridistribuiti in modo diverso, staccati e ri-incollati fra loro, qualcuno messo in primo piano e qualcuno nello sfondo e poi viceversa, qualcuno enfatizzato e altri per il momento non considerati. Tutto ciò, affinché quel materiale di informazioni lasci trasparire la vivacità della vita che in fase di analisi era andata perduta. Così facendo li si riporta nel loro alveo naturale di un divenire continuo, dove dai significati noti si possono estrarre significati nuovi che a loro volta chiariscono o gettano il dubbio sui significati prima raggiunti. Rimescolando le carte, la vita riceve nuovo impulso a progredire.


Brivido blu

Monica, all’inizio, di sé sa dire soltanto che è una persona fredda e ribelle: «se avverto che i miei colleghi mi vogliono imporre qualcosa, anche se io fossi dello stesso parere passo dalla parte opposta. Non sopporto le violenze».  Da alcuni mesi, sul lavoro, accusa vari disturbi fisici: palpitazione, rossore in viso, sudorazione abbondante, un calore allo stomaco che poi sale in tutto il corpo… Poiché recentemente questi fenomeni si realizzano anche fuori dal lavoro quando ad esempio é sola o al ristorante con amici, pensa di dare le dimissioni dal lavoro. Al solo pensiero di liberarsi da tanta violenza i sintomi sono calati; però non è sicura dell’utilità del passo.

Esplorando questi fatti (colleghi, lavoro, freddezza di carattere, moti di ribellione, amicizie, situazioni d’imposizione e di relax…) Monica arriva a darsi due spiegazioni. Capisce che per lei gli altri, prima, sono sempre dei violenti e, dopo, qualche volta degli alleati ma anche in questo caso da trattare sempre con sospetto: tutti come sua madre, per lei figura sempre e solo cattiva. Capisce anche un’altra cosa che non c’entra niente con gli altri e cioè che lei si è inacidita per ragioni solo sue: da un po’ di tempo, nel lavoro, è diventata la tipica donna in carriera. Adesso, associando questi due tasselli (altri cattivi – io acida) incomincia a sospettare che per lei è impensabile una associazione diversa (altri buoni – io amabile) e quindi lei non si può permettere di rapportarsi in modo più collaborativo con la gente che le sta intorno e neanche di immaginarsi una «maternità» buona. Rompere questo meccanismo introdurrebbe il tema più fastidioso degli attuali sintomi fisici: «ma io, io, appartengo a qualcuno?».

Fin qui la spiegazione: distanza relazionale difensiva per ragioni trasferenziali e di rivalità. Da adesso la comprensione: io, di chi sono? A chi appartengo?…Dunque, che decido?

L’analisi della sua sospettosità e del carrierismo ha rimesso in moto l’energia che quella sospettosità e carrierismo avevano finora avuto il potere di bloccare. Ora la freccia può proseguire verso il suo bersaglio: vita in intimità o isolamento?

Brivido blu giù per la schiena (non solo di Monica ma anche del terapeuta!): il tema diventa caldo, la domanda imbarazzante, la risposta impegnativa e mai conclusa. Lette le pagine precedenti, il libro si apre su nuovi capitoli.

Arrivati a questo punto, la domanda del «perché senti così?» sarebbe un elegante modo per squagliarsela. Da parte di Monica suonerebbe: meglio continuare ad analizzare che decidere. Da parte dell’educatore: meglio distrarsi con il perché piuttosto che comprendere lo stato di perplessità attuale e starci dentro per tutto il tempo che è necessario. Starci dentro anche lui, con il suo proprio imbarazzo, senza poter estrarre dal suo cilindro «La Soluzione Definitiva» (a meno che non si sia ridotto a illudersi di chiamarsi Donato di nome e di fatto). 

Quando nel dialogo formativo, l’educatore si è perso, non può più arroccarsi dietro alla sua scienza, non può più soffiare sulla polvere del passato, quando intuisce che deve assistere alla preparazione di un futuro migliore ma sconosciuto, ecco che introduce la distanziante domanda: secondo te perché fai così? Perché reagisci in questo modo? Perché senti così?  Domande che sembrano di interesse ma che, tradotte, significano: vai avanti tu, qui c’è troppo imbarazzo, io esco. Le spiegazioni che hanno il potere di sbloccare, fatte nel momento sbagliato stoppano.


C’è un tempo per spiegare e uno per comprendere

In un congresso di psicoterapia familiare, sull’approccio sistemico al disagio infantile, i convegnisti assistettero via video ad una seduta in diretta con una famiglia composta dai genitori e due figli, di cui il più piccolo (6 anni) dava chiari segni di acting-out aggressivi. Era la decima seduta e, come al solito, il bambino metteva a soqquadro lo studio del terapeuta con chiari intenti provocatori verso i genitori che, disperati e contravvenendo alle indicazioni del terapeuta di restare tranquilli, andavano a turno nell’angolo della stanza dove il bambino si dimenava, nell’inutile tentativo di calmarlo. Per quasi un’ora, il terapeuta (anche lui imbarazzato perché la seduta in diretta si stava dimostrando più ingestibile del previsto) riproponeva ai genitori la domanda del perché, secondo loro, stava succedendo ciò. Un po’ con le loro risposte e un po’ con le sue, stavano ripercorrendo le spiegazioni che già erano emerse nelle sedute precedenti e che ai convegnisti erano già state riferite come introduzione al caso: lotta di potere, aspettative narcisiste dei genitori, proiezioni sul figlio da lui rigettate, debole alleanza genitoriale, confini generazionali confusi… Ad un certo punto il padre, che da tempo saltellava fra l’angolo della stanza e il suo posto vicino al terapeuta, si fermò con le lagrime agli occhi. Il figlio captò subito e d’un tratto si mise tranquillo. All’ennesima domanda del perché di quel saltellare inutile, quel padre rispose: «dottore, siamo perfettamente d’accordo sul caos che sta succedendo. So anche che sto sbagliando. Ma, mi scusi, non si è mai chiesto che cosa passa dentro di me durante questi caos? Peggio di una barchetta di carta in mezzo all’oceano».  Brivido blu fra i convegnisti. Per motivi didattici (interessanti per i convegnisti) quella seduta era l’ora della spiegazione. Per motivi terapeutici (interessanti per i genitori) era l’ora del comprendere.


Starci dentro

Maria informa di aver cancellato il suo indirizzo E-mail segreto, che per mesi aveva usato come contatto segreto per avventure extraconiugali virtuali. Dopo qualche settimana dall’avvenuta chiusura dice che spesso ripensa con impaurita nostalgia a quell’intrigante giochetto. Ma non lo vuole rincominciare. Sa già che lo faceva per rassicurarsi di essere a 40 anni ancora capace di affascinare, per l’ebbrezza di poter dominare dal momento che nella vita reale era suo marito a dominarla e per tante altre cose simili. L’attuale sua nostalgia del giochino potrebbe essere l’occasione succulenta per rispolverare altre e più recondite motivazioni (forse eccitanti anche per il terapeuta!). Meglio lasciar voce al brivido blu che l’impaurita nostalgia sta adesso innescando: «mi accuso di non essere quella roccia che mi ero ripromessa». Rispondere: «perché vuole essere una roccia?» sarebbe fuorviante. Non è l’ora di rimestare la stessa minestra dei perché, ma di comprendere con un intervento del tipo: «l’ebbrezza non evapora tanto in fretta. È chiaro che lei ha dei ritorni di fiamma. Fa parte della sua umanità», «vuol dire, della mia debolezza! Dovrei essere più decisa», «per una donna decisa come intende lei c’è un solo nome: robot. Lei, grazie a Dio, non è un robot. Abbiamo visto che per lei è importante avere relazioni che la facciano sentire viva e questo è bello. Ma questi ripensamenti costituiscono il versante oscuro del suo desiderio, quello che le impedisce di cantare vittoria».

Supponiamo invece di rimanere nel terreno delle spiegazioni:

-    Maria ha paura di incontrare dal vivo gli uomini perché, a causa della poca stima di sé, teme di essere da loro rifiutata.
-    Ha un forte bisogno di aggressività che la porta a cacciare di nascosto e a fuggire dopo aver catturato.

-    Il bisogno di eccitamento la spinge ad introdurre varianti in una vita monotona e piatta.

-    Se si permettesse di incontrare l’uomo virtuale, significherebbe ammettere che il suo amore per il marito non è così esclusivo come lei preferisce credere.

-    Si difende dal suo bisogno di intimità, così minaccioso da evitare incontri dal vivo e così  impellente da cercarne mille in fantasia.

-    Compensa la sua reale subordinazione al marito noto con supremazie sui maschi ignoti.

-    Sta rivivendo la relazione con suo padre, da bambina tanto desiderato ma altrettanto inafferrabile.

-    Regredisce a livello dell’amore adolescenziale per negare la sua realtà di donna ormai alle soglie della mezza età.

-    Il suo bisogno di autonomia le impedisce di accettare la voce del rimpianto per il marito.

E così via….
Quali di queste spiegazioni è quella giusta? Una? Un’altra? Tutte? Nessuna?
Domanda: che cosa ricorderanno, di noi, i nostri clienti, fra 5, 10, 20 anni?  Non le nostre spiegazioni, non le loro interpretazioni, non la lista delle risposte ai «perché?» o «da dove?». Ricorderanno di uno che li ha compresi.


Per piacere, non fare così!

Che cosa facciamo se qualcuno piange al nostro cospetto?

Di solito, imbarazzati, ricorriamo alla domanda del perché. Non in modo esplicito (bisogna essere discreti!) ma in modi più delicati che però mirano alla stessa cosa. «Su, su, coraggio!» (stop al piangere), porgiamo un fazzoletto di carta (stop al piangere), chiediamo l’intervento di qualcuno che ci dia una mano a consolare (stop al piangere), «anch‘io, sai, ho sofferto quando…» (stop al piangere), «dai! è passato; tutto bene!» (stop al piangere). Stiamo dicendo stop al brivido blu che le lagrime fanno affiorare, che non è il caso di piangere perché (!) c’è un rimedio. Facciamo capire che la vita può cessare se si usa l’arma del sapere (intellettuale, tecnologico, relazionale…). Stiamo seguendo il consiglio di Eschilo: «Zeus ha stabilito che il sapere è il signore del dolore», anziché quello di Cristo che «imparò l’obbedienza dalle cose che patì».  

Piangere significa aprire la porta dell’interiorità più intima. Noi con i nostri perché la chiudiamo. Spiegare significa capire la causa recondita del piangere, comprendere significa cogliere l’umanità che quel pianto lascia fuoriuscire. Lascialo piangere, ma con te presente: «Se le tue lagrime hanno una voce, lasciamole dire. Non uscire da questo spazio, stiamoci dentro». Non si cade in un piagnisteo collettivo perché si permette al contenuto e al significato di quel pianto di venir fuori, in nostra presenza. La nostra presenza fa la differenza. Il nostro esserci e starci fa evolvere l’affetto detto in affetto analizzato, senza ripetere l’analisi già fatta che a questo punto sarebbe una noiosa e accademica ripetizione. Starci dentro…. anche quando ci dicono cose scandalose.


Lo strizzacervelli

Lasciamo, allora, perdere lo strumento della spiegazione?

Evidentemente no: il primo passo è spiegare che cosa sta capitando. Ma, fatto questo, nel cammino di crescita la carta vincente non è l’individuazione della causa esatta ma lo stare insieme per elaborare un futuro migliore. Il restare è quello che fa la differenza fra spiegare e comprendere. La persona si rivela, il terapeuta non stoppa…, lei parla di più, lui non si scandalizza…, lei dice l’indicibile, lui non condanna…, lei si giustifica,lui non assolve…, lei azzarda ancor di più, lui non scappa. Il terapeuta rimane se sarà capace di non farsi intimorire dalla debolezza altrui o tranquillizzare dalla virtù, né sedurre né farsi sedurre. Rimane quando l’altro è disperato e quando è vincente. L’altro imparerà a rimanere dentro a se stesso senza essere vittima di se stesso. Dal modo come noi comprendiamo l’interiorità altrui, il tu comprenderà se stesso.

È l’insight che produce comprensione o è la comprensione che produce l’insight? Comprendo perché ho spiegato o posso spiegare perché ho compreso? Forse la risposta non c’è o forse è tutte e due. Sappiamo però che il bambino cresce quando riceve la risposta ai suoi mille perché da una voce che lo comprende.

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