Auto-estraneazione organizzativa


Editoriale
Tredimensioni XXI (2024) 9-13



Un gradevole ed interessante testo di David Shapiro, risalente a qualche decennio fa[1], ricorda il concetto di auto-estraneazione in psicoterapia. Esso è stato ripreso più volte da Alessandro Manenti nelle sue lezioni e declinato in due direzioni: 
a. Innanzitutto la persona si estrania dalla chiave che usa per interpretare la realtà. Indossa lenti che filtrano secondo una determinata frequenza cromatica il reale, senza rendersene conto. Il “carattere”, ad esempio, inteso come frutto di ciò che si è sofferto, compiuto, fantasticato... di ciò di cui si è stati vittime, complici o costruttori: una tale visione ha generato uno stile abituale col quale trarre conclusioni sulla vita. Questo schema tante volte è ignoto a colui che lo utilizza, come chi cerca gli occhiali che poggiano sul proprio naso e senza i quali non vedrebbe quasi nulla. Così arriviamo a costruirci le nostre verità, convinzioni e anche rappresentazioni oggettuali (immagini interiori dell’altro che condizionano il modo di rapportarsi sul piano di realtà). Ognuno di noi è talmente appiattito sui problemi che vive da non rendersi conto della cornice in cui sono inseriti; presta più attenzione ai dettagli che non all’insieme, e perciò a volte non ne coglie il senso. Non di rado un paziente (ovvero uno che soffre nella psiche) ritiene che non ci siano vie d’uscita dalla propria condizione, perché ne è imprigionato. 
In secondo luogo, l’estraneazione riguarda il sé come mistero, ovvero una distanza dal senso della nostra altezza e profondità, della nostra bellezza di essere uomini. Se siamo figli di Dio creati a sua immagine, ne deriverà una grandezza che però proprio il carattere arriva a limitare, a ridurre. Il cuore grande che ci contraddistingue si è atrofizzato proprio nel nostro carattere, facendoci perdere occasioni di conoscenza e di esperienza nuove, spingendoci ad un arroccamento molto riduttivo. 
Ma quello che vale per il singolo non può valere anche per l’organizzazione religiosa? Pensiamo alla Congregazione di vita apostolica o contemplativa, all’associazione laicale, alla parrocchia o diocesi, alla Chiesa universale... Tale auto-estraneazione può assumere forme assai differenti, se il termine di paragone è quello del “carattere” individuale. Per questo motivo qui si accennerà solamente a qualche sua declinazione, scegliendo come sfondo quello particolare della vita religiosa. 

Auto-estraneazione delle parole 
La Congregazione XY – dedita alla carità non nelle periferie esistenziali ma in quelle concrete dei sobborghi delle grandi città – si occupa di senzatetto e malati psichiatrici abbandonati a loro stessi. Si fa tutto insieme, dal lavare i piatti al celebrare l’eucaristia. Tutti hanno diritto di parola, e infatti le preghiere dei fedeli, durante la celebrazione eucaristica settimanale, possono durare una decina di minuti. Questa è la rappresentazione conscia della Congregazione: «Siamo una famiglia», una sorta di mantra ricorsivo. Ma esiste anche una rappresentazione inconscia, nella quale i religiosi si concepiscono come soldati che marciano a tappe forzate: dagli orari di sveglia mattutina ai turni di preghiera nell’adorazione notturna; dallo stile di obbedienza alla determinazione con cui si porta avanti il carisma. Le decisioni della “famiglia” vengono prese in determinati luoghi, dove non solo i poveri non hanno più diritto di parola, ma nemmeno i religiosi, membri a pieno titolo della famiglia. Del resto, non si è mai visto che un soldato semplice possa mettere in discussione la parola del generale, men che meno i civili. “Famiglia” è parola del linguaggio vocazionale e pubblico; “disciplina” è invece la regola che governa le relazioni interne. 

Auto-estraneazione della domanda 
Se la Congregazione XY dovesse domandare aiuto ad un formatore esterno, probabilmente lo farebbe per motivi organizzativi. Le case all’estero (specie se in Oriente) e quelle in Italia o Sudamerica vivrebbero dinamiche opposte: le prime in crescita numerica e con peso in aumento (non però specifico), le seconde in profondo calo ma garanti della tradizione. Eccoci allora di fronte ad uno sbilanciamento che potrebbe comportare la necessità di uno sguardo esterno – magari da parte di chi si intende di organizzazione – per andare a ridisegnare equilibri e strutture. Nel giro di poco diventerà palese che la domanda funzionale è la manifestazione di una sottostante domanda sul carisma. È proprio come in psicoterapia: tra problema presentato e problema reale raramente c’è coincidenza. In fondo accade spesso che siamo lì! 

Auto-estraneazione della formazione 
«Non siamo abbastanza formati... Non lo siamo stati in passato... La formazione non funziona bene... Questa formazione non serve a niente... Abbiamo bisogno di più formazione»: sono alcune espressioni esemplari che circolano nella Congregazione XY, lasciando aperta la domanda su cosa si intenda per “formazione”. È un termine che rimanda spesso alle fasi iniziali della vita religiosa (postulandato, noviziato...), mentre di rado si applica a quella permanente. Ma è soprattutto nella sua realizzazione che tale parola paga dazio: ci si lamenta dell’inefficacia della formazione ma poi la si vuole trasmissiva, fatta di pieni che vanno a riempire un vuoto, e non di pensiero sul pensiero, di capacità di trasformazione, di riflessione e verifica sul reale. Se si passa del tempo a riflettere ed auto-formarsi, molti rimpiangeranno il relatore dalla battuta facile che col suo fervorino lascia tutto inalterato. Si invoca formazione, ma la si vuole innocua e inutile. 

Auto-estraneazione della richiesta di aiuto 
È risaputo, in psicologia, che un paziente mentre domanda e chiede aiuto, contemporaneamente resiste alla crescita e vi si oppone con una parte importante del Sé. «Libera nos a malo, libera piano piano» si cantava qualche anno fa. Chiedere aiuto non significa in automatico riconoscere di averne bisogno. Infatti, non solo l’ipocrisia di facciata è perennemente dietro la porta, ma anche le resistenze dell’organizzazione che non vuole realmente cambiare. Persino il leader più illuminato può sabotare un cambiamento nel momento stesso in cui lo imbastisce! Perché la richiesta di aiuto sbugiarda la sottaciuta pretesa di onnipotenza e di perfezione che così spesso contraddistingue le realtà religiose. E allora il consulente diventa come l’ospite e come il pesce: lo si sopporta per tre giorni, ma poi va estromesso. 

Se ne può venire fuori (o forse dovremmo dire: si può tornare dentro)? 
Ci domandiamo se la Congregazione XY, estranea a sé stessa, possa veramente compiere dei passi avanti: la risposta è sì. Lo affermiamo convinti, sulla base del fatto che questa condizione è presente in ogni persona, anche nei santi. E allora la domanda che ci poniamo è: «Quali strade possono favorire una progressiva riconciliazione?». Rintracciamo la risposta in due elementi: il metodo e la sua adattabilità
Quando si vuole raggiungere un obiettivo, il metodo è tutt’altro che secondario. È palese che il Concilio Vaticano II non ci avrebbe regalato quei documenti che oggi sono patrimonio della Chiesa, se non avesse adottato un metodo che consentiva di far emergere una voce interna spesso inascoltata. Come la psicoterapia ha un setting e un metodo che consentono alla persona di riavvicinarsi a sé stessa, così anche le organizzazioni sono chiamate a prestare molta attenzione al metodo che utilizzano in funzione degli obiettivi che si prefiggono. Dedicare tempo a costruire un metodo è importante, così come è legittimo copiare, perché non siamo più seduti dietro ai banchi delle elementari o delle medie. Raccogliere esperienze, confrontarsi, riflettere su quale possa essere il modo migliore per favorire un dialogo che non divida... non è affatto tempo perso. Invece di preoccuparsi di chiudere in fretta il discorso, vale la pena utilizzare un metodo che alla fine inevitabilmente andrà a toccare il principio e fondamento della Congregazione o della realtà ecclesiale. Interrogarsi sui modi di discussione e di coinvolgimento di tutti i membri è condizione imprescindibile e precedente i risultati raggiunti. Spesso, infatti, si è concentrati sui contenuti e si trascurano i processi. 
Tuttavia, perché un metodo possa funzionare, occorre saperlo adattare. Non esiste un abito che possa andare bene a tutte le persone: le variabili in gioco sono talmente tante che ogni famiglia religiosa, ogni presbiterio, ogni associazione laicale dovranno non tanto adattarsi al metodo quanto piuttosto adattarselo, come si trattasse di un vestito sartoriale. Anche a questo vale la pena dedicare tempo e non costringersi a tutti i costi a rispettare tappe che qualcuno, altrove, ha deciso. Il paragone con l’accompagnamento psicologico, anche in questo caso, è lampante: ogni terapia ha un proprio andamento, sebbene alcuni elementi siano imprescindibili (individuazione del problema e della psicodinamica, costruzione dell’alleanza, working through e conclusione). Ma il modo in cui si percorrono le singole tappe – o si passa dall’una all’altra – difficilmente sarà lo stesso per le diverse persone. 
Utopia? No, perché ci sono già esperienze virtuose in tal senso: e, se l’ha fatto qualcuno, potrà riuscirci anche qualcun altro. Certo ci vuole una buona dose di coraggio, una governance che ci creda e tempo dedicato a riflettere. Condizioni forse non sufficienti, ma certamente necessarie, che occorrono contemporaneamente. Ma la fiducia che il cambiamento possa avvenire c’è.
 

[1] D. Shapiro, Psychotherapy of Neurotic Character, Basic Books, New York 1989, tr. it. Id, La personalità nevrotica, Boringhieri, Torino 1991, pp. 17-25. Il concetto è diverso da quello, più relazionale, che si trova in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999, pp. 652-653: «La solitudine richiede che si sia da soli, mentre l’estraniazione si fa sentire più acutamente in compagnia di altri. [...] L’uomo estraniato (eremos) si trova circondato da altri con cui non può stabilire un contatto o alla cui ostilità è esposto. [...] nell’estraneazione sono effettivamente uno, abbandonato da tutti. [...] Quel che rende l’estraneazione così insopportabile è la perdita del proprio io». 
 

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