Sotto il vestito... (niente?)


Editoriale
Tredimensioni 5(2008) 3, 228-235



I modi di vivere cambiano. Cambiano gli ambiti di interesse, i modi di esprimersi o di presentarsi agli altri, le interpretazioni che si danno al proprio ruolo…. Il linguaggio cambia. Anche le istituzioni cambiano nel loro organizzarsi e stabilire le gerarchie di priorità. Tutto scorre, diceva Eraclito, ma in realtà grazie ad uno scavo archeologico, si possono ancora vedere le stratificazioni che si sono succedute nell’arco di 10-20 anni: gli anni della contestazione e quelli del riflusso, gli anni dell’espansione e quelli della conservazione…
Non sempre i cambiamenti avvengono per scelta consapevole di chi cambia. Più sbrigativamente, ci ritroviamo cambiati senza saperlo e a volte nemmeno senza accorgerci del cambiamento in atto.


L’ideologia di riferimento
Che i tempi cambino non è una novità, ma ciò che oggi sembra nuovo è il modo in cui avviene il cambiamento: un modo insinuante, che si impone al nostro orizzonte seducendoci, ma senza lasciarsi riconoscere, per cui ci ritroviamo docili seguaci di un padrone che non solo non abbiamo scelto, ma neanche ci accorgiamo che lo stiamo servendo.
Se all’uomo del recente passato (pensiamo ai nostri genitori) chiedevamo di spiegarci il perché delle sue scelte anziché altre, non era troppo difficile ottenere da lui una risposta che ci faceva intravedere che dietro alle sue scelte c’era l’opzione per determinati valori anziché altri. La stessa domanda, fatta all’uomo di oggi, non trova una risposta così esplicita. Suona strana e suscita imbarazzo;  qualche volta anche fastidio, come se fosse una critica.
Si tratta di un modo davvero nuovo di nascita delle ideologie. L’uomo del recente passato ragionava e reagiva ai fatti della vita alla luce della scuola di pensiero alla quale (più o meno coscientemente) aveva dato la sua adesione e in base a coordinate basilari previamente accettate impostava la coerenza dei suoi discorsi successivi. L’uomo di oggi non ha tempo per pensare a quali siano le premesse della sua azione. Inventa «lì per lì». Anziché dedurre la prassi da una previa scelta ideologica elaborata nel silenzio della riflessione, escogita strategie contingenti per tener testa a ciò che si ritrova fra le mani e per farlo attinge ad occhi chiusi dal bancone del self service.
Il fatto di essere nel tempo della “crisi delle ideologie” significa che non ne seguiamo alcuna? No! L’ideologia è precisa e prevedibile, ma seguita senza accorgersi di seguirla, perché i principi  che la compongono si coniugano man mano che si risponde a ciò che la concretezza propone.
Oggi non siamo dei  grandi pensatori. Viviamo di avanzi. Costruiamo le nostre identità su rimasugli di significato e le modifichiamo di crisi in crisi o da momento a momento.
Il nostro agire automatico e pressato dagli avvenimenti elabora in noi -dal basso e per inerzia- una mentalità di vita che ci forgia senza che lo sappiamo e qualche volta –quando in uno squarcio di consapevolezza riusciamo ad esplicitarla- la rifiutiamo come non nostra. Il «pensiero debole» che caratterizza il postmoderno è tale anche per questo suo modo debole di nascere, oltre e prima dei suoi contenuti.


Fruitori ignari di una ideologia sconosciuta
Siamo figli di un padre ignoto. Ma l’ombra di quel padre è in noi e ci influenza, senza poter dare a quell’ombra un nome e un volto preciso.
Il figlio che conosce il padre può paragonarsi con lui e decidere se inglobare o no nella propria identità di adulto l’eredità ricevuta da lui. Poiché conosce il padre, è libero di riconoscerlo o rinnegarlo. Ma se il padre gli è ignoto, non può confrontarsi con lui e decidere se farlo in sé vivere o morire. Al contrario, il figlio, prigioniero di un padre che non conosce, ma a lui legato per motivi di sangue, lo cercherà e più gli è sconosciuto più ha voglia di cercarlo. E mentre lo cerca, quel padre ignoto abita in lui con connotazioni fantastiche che distorcono ciò che effettivamente il padre è.
Oggi non si cerca più un padre ignoto: in nome dell’autonomia non lo si vuole neanche. Tuttavia, senza un padre non si po’ vivere. Allora, introiettiamo acriticamente una mentalità senza decodificare ciò che essa sta a significare e, una volta dentro di noi, la seguiamo ingenuamente, perché ne siamo inconsapevoli recettori, senza filtro di commento. E il risultato è che noi stessi siamo discepoli di quella ideologia che  a parole condanniamo.
Combattiamo tanto il post moderno. Non sarà che anche noi -cattolici praticanti- siamo un po’ postmoderni? Non sarà che nel criticare i tempi moderni abbiamo un po’ perso l’auto-riflessione correttiva? Il demonio è solo fuori di noi o vale anche il detto evangelico che mentre siamo intenti a cacciarne uno, in casa nostra ne ritornano sette? La cultura che combattiamo, perché così vistosamente concretizzata negli altri, non sarà che è la nostra stessa cultura da noi più «castamente» tradotta?


Condanniamo ciò che noi stessi pratichiamo senza volerlo
Questo modo di  elaborare la struttura identitaria può essere vero per tutti, per credenti e atei, intellettuali e metalmeccanici, filosofi e prelati. Ahi noi! Cristiani fuori, pagani dentro? Ma poiché cristiani fuori, crediamo di esserlo anche dentro, mentre il  dentro dice qualcosa d’altro e il fuori si riduce ad una caricatura.
L’ipotesi di un clero postmoderno, magro di contenuti forti, infastidisce quella parte del clero che preferisce identificarsi nel difensore dell’ortodossia contro i persecutori esterni. E ha anche ragione di rigettare questa ipotesi, perché la magrezza non si vede ad occhio nudo. È  dentro, ma fuori non appare.
Ci vuole un occhio attento, che sappia cogliere le somiglianze invisibili dietro alle differenze visibili, riconoscere i processi simili in forme comportamentali dissimili. Quando quest’occhio -umile e contrito- funziona, ecco che si accorge del camuffamento:  i processi psicodinamici sottostanti (cioè l’ideologia implicita di base) sono gli stessi, anche se producono concretizzazioni comportamentali diverse.


Alcuni esempi
Proviamo ad esercitare quest’occhio.
Rubrica annunci del cuore:
«Splendida bellezza, successo a scuola e in affari, conosce la musica, lo sport e le lingue, cerca compagno pari requisiti dimostrabili. Astenersi chi non ha la documentazione richiesta».
«Ciao, mi chiamo Valerio, ho 58 anni,  Ho un lavoro importante e sono circondato da persone illustri: Al mio fianco vorrei una donna multiculturale, amante dei bambini e adatta alle richieste della vita sociale ai più alti livelli».
In questo tipo di annunci non c’è il criterio di carenza, provvisorietà, abbozzo da colmare in seguito: tutto è pronto. Ma gli stessi criteri mancano anche nella ideologia dei nostri bravi ragazzi cattolici. Anche per loro è assodato che il matrimonio si farà quando la casa è pronta e l’ultimo quadro è stato appeso alla parete, quando i genitori hanno garantito il loro appoggio e il sesso si è dimostrato che funzioni. Tutto documentato; e se l’imprevisto ci sarà, allora vuol dire che ci siamo sbagliati. Se si sposassero lasciando un po’ di spazio al rischio e alla improvvisazione, anche il parroco li inviterebbe alla prudenza. 
Negli annunci del cuore manca anche il criterio della povertà: la vita beata ha dimensioni gigantesche, straordinarie. Molto e in quantità. Come i nostri (più prosaici) carrelli all’uscita dal supermercato, stracolmi di tutto e in gran quantità… con buona pace di chi ha detto «il seme cresce anche quando l’operaio dorme».  O come i nostri bambini, con zaini stracolmi  di roba inutile. Vi immaginate un povero cristiano in cerca di matrimonio descrivere se stesso «di fisico normale e dimensioni scarse?» Se una bella donna si mettesse con lui, anche il parroco rimarrebbe incredulo e sospettoso.
Contro questi annunci sul giornale non si può solo inveire. Fatta la tara, vomitano in forma massiccia ciò che noi ingeriamo a piccole dosi.


Evangelizzazione tra la frutta … o evangelizzazione alla frutta
Da un quotidiano di qualche mese fa: «Non c’è dubbio, i centri commerciali hanno preso il posto, come luogo di ritrovo, di quello che un tempo erano parrocchie e oratori. Per questo noi ci andiamo». Così dice il responsabile della associazione … che batte nuove strade per trovare fedeli. «Cosa fate nei  centri commerciali?», «Spettacoli di animazione: suore vestite da clown, sacerdoti che fanno giochi di prestigio. Poi alla fine diamo dei volantini e ascoltiamo i problemi della gente». «Vi ascoltano o tirano dritto?», «Quattro volte su cinque ci ascoltano. Alcuni poi ci vengono a cercare». «In quanti centri commerciali siete stati?», «Una decina l’anno». «Mai avuto problemi?», «A Firenze non hanno voluto che mettessimo la tenda che usiamo come chiesa volante. A Frosinone non ci hanno fatto entrare nemmeno nel parcheggio. I direttori erano anticlericali»
Giusto. Dobbiamo trovare la gente là dove si trova. Ma…, per fare che cosa?
Sulla ideologia narcisista (quella che tanto combattiamo) riportiamo brani sparsi : «Il nuovo dirigente non si propone di costruire un impero, ma di sperimentare l’esaltante emozione di far correre la sua squadra e di mietere vittorie. Egli vuole essere conosciuto come un vincitore e la sua più grande paura è di essere qualificato un perdente» (p. 58); «…egli confonde il riuscito espletamento del compito che ha di fronte con l’impressione che fa o che spera di fare sugli altri» (p, 75); « il suo soddisfacimento dipende dal prendere ciò che si vuole, invece che dall’aspettare ciò che si ha il diritto di ricevere» (p. 82); «In un’epoca meno complessa, la pubblicità si limitava a richiamare l’attenzione sul prodotto, esaltandone i pregi. Oggi sfrutta il disagio della civiltà industriale. Il vostro lavoro è noioso e frustrante? Vi fa sentire stanchi e inutili? La vostra vita è vuota? Il consumo si incarica di riempire questo vuoto lacerante» (p.87).
Ritorniamo al versante cristiano e leggiamo questo invito:
«Come ogni anno, arriva il grande momento di rivedersi tutti, in cattedrale intorno al nostro vescovo: amici dei gruppi parrocchiali, del ‘giro’ della chiesa… o semplicemente amici sempre incontrati, ma non del tutto conosciuti. L’edizione 2008 si apre ai giovani attraverso un linguaggio che è loro proprio: la musica. Musica che spesso è rumore per non ascoltare i propri pensieri, ritmo per abbandonare le regole statiche della realtà. Ma anche musica che esprime tutte le emozioni che difficilmente si spiegano a parole. Vi siete incuriositi? Beh, anche noi! Per questa serata sono graditi i capelli colorati e le giacche di pelle…»
Davvero, siamo così diversi dai narcisi del mondo?


Leggeri come le piume
Paragonate queste due dichiarazioni: diverse per il contenuto, ma uguali nell’allergia alla beatitudine dei poveri e degli afflitti: non è difficile notare che in entrambe le dichiarazioni l’idealità è ridotta ai suoi aspetti leggeri e dunque enfatizzata.
Seminarista di 29 anni: «la svolta in senso vocazionale della mia vita è stata una marcia della pace. Prima, vivevo nel caos della vita e con la rabbia per la dose quotidiana di attentati, bombe, sparatorie e morti varie che il telegiornale ci propina ogni sera. Alla marcia ho scoperto che si può vivere senza farsi le paranoie sulla vita. Sì, ho scelto di servire il Dio della pace, che ci fa vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo. Con Lui so che si possono vincere le preoccupazioni del mondo, le ansie per l’avvenire. Mi rappacifico con il mondo e posso stare fuori dalla sconfitta».
Ragazza di 29 anni: «Mi piacciono i soldi, perché i soldi sono il contrario della realtà. Più sei ricco, più puoi rimanere fuori dal mondo. La realtà non è mai bella. Chi ha molti soldi può vivere da un’altra parte, lontano dalla minaccia della realtà. Una bella barca per viaggiare sul mare con gli amici, una villa con piscina e il muro alto affinché la realtà non possa entrare. I soldi sono uguali ai sogni, ma durano di più, portano più lontano. Sono come Dio e come l’arte, anche meglio. Portano in fretta altrove. E io voglio stare lassù, felice».
È  proprio così scontato che lui sia un ragazzo impegnato e lei una smarrita ragazza?


Identità di genere
Una tendenza dello spirito contemporaneo è quella di non fare distinzioni appropriate. Mescola l'est e l'ovest. Ha perso la nozione che l'est fa guardare ad est e l'ovest a ovest. È  lo spirito di quella simpatica ragazza che non vede la contraddizione nel dire candidamente: «la domenica mattina, quando mi sveglio, lavo via dai capelli e dal corpo l'odore del sabato notte in discoteca e poi vado in chiesa» o di quel brillante mercante che grida ai quattro venti che occorre il rinnovamento morale e contemporaneamente calcola gli utili economici che può ricavare, se si prolunga la situazione di corruzione. 
In questo tipo di anima stili di vita, ideologie, modi di fare...., di per sé antitetici o contraddittori, convivono senza collisione. È  un'anima che rifiuta di specializzarsi e tende a muoversi in una zona ibrida, all'insegna di una convivenza sorniona di aspetti vari, senza aver fatto la scelta né per uno né per un altro.
Questo ermafroditismo (l'ermafrodito é colui che possiede contemporaneamente ghiandole genitali dei due sessi)  segna anche la costruzione della nostra struttura identitaria. L’uomo e la donna contemporanei -dice la psicologia più recente- fanno difficoltà a raggiungere una chiara «identità di genere», ossia a sentirsi interiormente maschio/femmina (che è cosa diversa dal sentirsi omosessuale). La moda unisex attenua i marchi della differenza di genere maschile e femminile. Fa tendenza l'uomo muscoloso ma depilato, la donna palestrata ma ancora gradevolmente seducente: quel tanto di amalgama di forza e tenerezza, cuoio e velluto che non arrivi però alla specializzazione, perché non é il passare all'altra sponda che conta (il che sarebbe schierarsi) ma lo sfumato, l’indeterminato, ciò che non chiede decisione. Ma dove non c’è decisione, non c’è separazione e, dunque, non c’è identità. In epoca di globalizzazione non si sceglie ma si assembla.
Nel centro di Roma si vedono sempre più spesso seminaristi e giovani preti in talare, piuttosto belli e autocompiaciuti del fruscio di stoffa e frange. Nella liturgia rifanno capolino pizzi e merletti riesumati dai cassettoni preconciliari. Il rapporto fra corpo e interiorità, oggi fa problema per tutti e forse lo fa anche negli ambienti clericali. Il corpo non è più (come lo fu, ad esempio, nella classicità greca) il tramite della interiorità: il corpo era la vetrata, l’interiorità era la luce che l’attraversava. Oggi, l’espressività corporale serve da camuffamento, per far illudere una interiorità che non c’è e, meno maschile è, meglio è (vedi il corpo nella pubblicità). Forse, è anche per questo che nella cultura odierna si fa avanti la strana idea che l’amore effeminato è culturalmente normale e forse anche meglio. Nella talare e simili non c'è nulla di male, ma è quello che si cerca nella talare che forse non è proprio così chiaro. Il modo in cui è portata dice parecchio del motivo sottostante. Essa può diventare una finta corazza per una struttura debole che non sa stare in piedi e si protegge dal confronto con la realtà circostante: allora, ciò che conta è la pelle (l'estetica), non la carne (l'uomo) che c'è sotto la pelle.
In mancanza di vere demarcazioni, si esagerano quelle che sembrano farlo. Magari reclamano il latino anche coloro che non sanno neanche declinare rosa-rosae, ma anno nostalgia del mistero (quello di Dio o quello del latino?). Va di moda l’integralismo estetico dove le parole sono tutt’altro che pietre: forti perché pronunciate forte ma dove non è illegittimo porre il dubbio se lo slancio retorico, con il quale vengono esibite pubblicamente e propugnate in continuazione nei discorsi, non sia anche una forma di compensazione alla loro mancanza di efficacia concreta.
A identità deboli piacciono declamazioni forti, molto curate nella forma, nel tono suadente e un po’ patinato con il quale vengono dette; ma non le sfiora il dubbio del molliccio che sotto si camuffa.  Ai nuovi chierici piace avere idee chiare e assertive: perché nella vita ci vuole chiarezza o perché loro hanno bisogno di mettersi al riparo da repliche e contestazioni? Il bravo prete è chiaro e misericordioso. Il prete rigido è chiaro e arrabbiato per le debolezze altrui,
Bisogna stare attenti ai messaggi mondani che inconsciamente facciamo passare, perché l’inconscio è inconscio ma fa capolino nella vita conscia insinuando la sua presenza e segnalando (soprattutto alle antenne degli altri) la frivolezza del conscio.
 
 


 

 
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