Tre volti dell'educatore


Franco Imoda
Tredimensioni 1(2004)1, 9-17 
 


Il momento storico che stiamo vivendo richiede alla chiesa e alle sue istituzioni educative il difficile compito di ridisegnare una mappa culturale. L’impresa implica certamente una rinnovata indagine filosofico/teologica e antropologica, ma anche un’urgenza ad attuare un nuovo coinvolgimento personale. Richiede una mossa di tipo intellettuale, ma anche un impegno. All’indagine teorica si lega una conversione della persona, nel cuore.
In un’epoca dove i cambiamenti sono veloci e radicali, una duplice dimensione –temporale e culturale- sfida l’educatore. 
La dimensione temporale lo sfida perché nella velocità dei cambiamenti egli deve avere la capacità di mediare fra conservazione e rinnovamento:  conservare ciò che si è ricevuto dal passato e inventare qualcosa per il futuro, accogliere la tradizione ma anche portare un’innovazione. Offrire soltanto dei contenuti assicurati dal passato senza la concomitante capacità di mediazione vuol dire condannare i destinatari a invecchiare molto rapidamente.
La dimensione culturale dell’attuale cambiamento mette in gioco il problema del pluralismo (ed eventualmente del relativismo). L’educatore non può chiudersi in un sistema che pretende di avere tutte le risposte, ma neppure perdersi nelle varietà culturali o sottoculturali, identificarsi con una zona del mondo o con un periodo culturale senza mediare con le verità universali. Se la deriva del relativismo è sempre presente lo è anche la tentazione di arroccarsi su un tipo di realtà (sia intellettuale che di abitudini) che pretende di sapere tutto e non ha bisogno di imparare dalle nuove sollecitazioni e domande.
Queste sfide della cultura del cambiamento toccano l’educatore anche sul piano antropologico. Nel campo della formazione sappiamo tutti del pericolo di ridurre la persona ad una sua componente. La tecnica pedagogica può offrirsi in opposizione a una sapienza, cioè ad una conoscenza e formazione che coinvolga tutto l’essere. Quando è così, il formatore presta giustamente attenzione al suo ruolo ma può dimenticare di vedere la persona nella sua totalità: prepararsi e preparare con delle utili e buone indicazioni ma che quasi non si integrano nell’ambito di tutta la motivazione. Questa sfida a fare una “educazione integrale” fa parte di questo rinnovamento e cambio. Il Vaticano II ci ricordava:“Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di oggi e domani delle ragioni di vita e di speranza” (Gaudium et Spes 31). Queste ragioni di vita e di speranza non sono sintetizzabili soltanto in un discorso astratto o tecnico, ma dicono una presenza, una trasformazione in atto della propria vita, l’avere toccato con mano che è possibile crescere, ricominciare, che è possibile riscoprire delle vecchie verità in modo nuovo.


Le dimensioni della vita
Vorrei evocare tre immagini per cogliere e catturare tre dimensioni della vita umana che cerchiamo di aiutare costantemente a crescere e a svilupparsi in armonia. 

1. Abramo. E’ il simbolo di chi è chiamato ad intraprendere un viaggio e a cambiare il proprio orizzonte cognitivo. Dal contesto abituale della sua famiglia, cultura e paese, Abramo è inviato da Dio verso “un paese che io ti indicherò”. E’ quindi chiamato ad una nuova dimensione che potremmo chiamare conoscitiva, che può rivelare ambiti più ampi e sempre nuove scoperte. L’orizzonte proposto non è solo quello di una terra, di greggi nuovi o di una discendenza promessa nell’alleanza. Il fondamento di questo nuovo orizzonte è Dio stesso: “Io ti manderò…Io sono all’origine”. Il viaggio, per il credente, è sempre anche un ritorno, perché è una scoperta che all’origine non c’era solo lui, ma Dio stesso che crea, chiama, invia. La parola di Paolo racchiude non solo il pensiero che si trova nelle varie settimane degli esercizi di S. Ignazio ma il cammino di trasformazione cristiana e umana: “Quelli che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha giustificati; quelli che ha giustificati li ha glorificati”(Rom. 8,28-30).
La figura di Abramo si presenta dunque come il simbolo della scoperta di territori nuovi. Un’immagine corrispondente, nel vangelo di Matteo, è quella dell’occhio (Mt. 6,22-23). L’occhio è la luce del corpo; se l’occhio è puro tutto il corpo vive; se non lo è, bisogna ridargli la sua dimensione cognitiva in forza della quale l’occhio sa ri-guardare, ri-proporre le domande giuste e fondamentali, e porle a partire dalla percezione della vita vissuta. Nell’introduzione al libro sullo sviluppo parlavo di queste domande fondamentali che continuamente si ripropongono a noi e che l’educatore cerca di rintracciare nelle domande più contingenti che si sente porre da chi a lui si rivolge. Sono domande non sempre formulate logicamente o esplicitamente, alle volte solo a livello di grido, comportamento, ribellione o incapacità di porre la domanda stessa. Ma il tema educativo rimane: iniziare il viaggio partendo dalle domande che noi stessi verbalizziamo o sappiamo riscoprire in chi ci sta davanti.

2. Giacobbe evoca una seconda dimensione, dai connotati più volitivi. La troviamo nella sua lotta con una realtà misteriosa: è l’angelo, è Dio stesso o sono tutti e due? Giacobbe si trova di fronte ad una realtà che lo confronta, con la quale deve venire a contatto e con la quale si sente coinvolto. Non si tratta di una contemplazione distaccata di alcune verità, ma di un cammino di riscoperta e impegno che spesso è lotta e che coinvolge tutta la persona. Un cammino che chiede che tutta la vita -nella sua dimensione di passato, presente e avvenire- sia messa a confronto con una realtà altra che spesso può essere quella di un angelo, quindi non ancora del volto stesso di Dio, di un’apparenza, di qualcuno che solo dopo si rivelerà essere Dio, dopo che con esso ci siamo confrontati, abbiamo lottato, e siamo stati feriti (come nella storia di Giacobbe) alla gamba o all’inguine, in modo da non poter più camminare come prima. La vita è cambiata, ma è proprio in questo confronto che avviene un ulteriore approfondimento della relazione con Dio stesso.
Anche le persone che aiutiamo non sono per noi come delle figure su un palcoscenico, ma qualcuno con cui ci coinvolgiamo, e al quale ci affianchiamo nella sua “lotta di Giacobbe”. E’ una la lotta che spesso inizia come lotta umana, psicologica: una difficoltà con radici nel passato familiare, un‘ambizione irrealista, un incontro sbagliato o casuale. Ma ultimamente è una lotta che vuole trasformarsi in una lotta religiosa. Se questa trasformazione non avviene il nostro contributo formativo rimane molto parziale e insufficiente. Quando, invece, nell’esperienza di una difficoltà, di un incontro o scontro umano può rendersi trasparente una lotta cristiana e religiosa, quella difficoltà non solo é recuperata o accettata ma redenta. Questo è uno degli scopi fondamentali del lavoro educativo. Quando un’esperienza umana assume la caratteristica di un incontro o scontro con Dio stesso che ci interpella, e chi la sperimenta la vive in questi termini, allora l’azione educativa ha lasciato uno strumento che può preparare il soggetto ad affrontare quelle sfide che dicevamo all’inizio:, ridisegnare una mappa, attuare un progetto, operare una conversione.
Se Abramo ricorda l’immagine dell’occhio che cerca, che si pone le domande, che scopre orizzonti nuovi, Giacobbe richiama la pagina dello stesso vangelo di Matteo (Mt. 6,24) sul servizio: “Non potete servire a due padroni”, o servirete l’uno o l’altro, nel senso della volontà che si impegna con Dio attraverso gli impegni del quotidiano.

3. Davide evoca la dimensione affettiva. Il parametro qui evidenziato dell’opera educativa non è solo cognitivo, né solo quello di una volontà che si impegna nella decisione, ma una trasformazione affettiva che coinvolge tutta la persona.
Davide è l’immagine di colui che è stato capobanda, che ne ha fatte di tutte per provare a Saul di essere capace, è colui che diventa re, è l’amante più o meno legittimo, è il cantore, l’artista. Ma fondamentalmente è colui che in tutte queste cose rimane l’amico di Dio stesso. Sarà anche colui che è pronto a dare la vita. Quando suo figlio muore dirà: “Fossi stato io a morire al posto di Assalonne”. Quindi non solo un ruolo, una parte, non solo un’emozione inquadrata in un ruolo, non solo una passione sia pure quella più forte dell’amore, ma l’amore consapevole di colui che è fondamentalmente l’amante di Dio.
L’opera educativa non è tale e non raggiunge il suo scopo se non può operare sia l’inquadramento che la trasformazione di queste passioni umane nel contesto dell’amore di Dio. Non mettendole tra parentesi ma prendendole sul serio. Davide resta il grande amante, l’organizzatore del regno, il guerriero, l’artista, ma queste sue passioni umane vengono integrate in quella sua fondamentale vocazione di amico di Dio che sa lodarlo in tutti questi aspetti.
Davide richiama il testo evangelico “là dov’è il vostro tesoro sarà anche il vostro cuore” (Mt.6, 21). La trasformazione del cuore richiede un tesoro fondamentale. L’educazione cristiana è quella che riesce ad appassionare, far vivere i tesori che possiamo raccogliere e incontrare nel nostro cammino senza farne degli assoluti, senza isolarli e contrapporli al tesoro fondamentale che troviamo nella vocazione del giovane ricco: “Vai, vendi quello che hai e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nel cielo”(Mt. 19, 16-22). Il punto di riferimento fondamentale non si oppone a tutte le altre passioni umane ma riesce a redimerle, a liberarle e santificarle. Tutto ciò in un quadro non statico ma dinamico, un divenire continuo, un cambiare nella relazione.


Partire dalla vita per ampliarne l’orizzonte
Come immagine della pedagogia che siamo chiamati ad attuare trovo sempre utile rileggere l’incontro di Pietro e Giovanni con lo storpio mendicante alla porta bella del tempio (At. 3,1-10). L’incontro avviene nel contesto che segue la resurrezione, in quell’aura di novità di vita da un lato e dall’altro di ripresa della vita normale: C’è qualcosa di fondamentalmente nuovo e nello stesso tempo c’è la ripresa delle attività di tutti i giorni, perché il regno di Dio non è soltanto qualcosa di diverso e di altro ma è diverso e altro nel quotidiano, nell’ordinario. Pietro va a pescare, va a pregare e salendo, quel pomeriggio, al tempio con Giovanni incontra lo storpio che ogni mattina viene portato al tempio per chiedere l’elemosina. L’orizzonte di vita di quest’uomo è molto ridotto: non può camminare, non può lavorare, non può essere autosufficiente, dipende dagli altri nella sua sopravvivenza, per cui la sua domanda, la sua richiesta ed aspettativa è ormai quella rinchiusa nel mondo dell’elemosina. Al suo domandare ristretto si aspetta una risposta altrettanto ristretta: un po’ di denaro per sopravvivere un altro giorno. In questo universo estremamente ridotto avviene l’opera educativo-pedagogica, non solo come comunicazione astratta, ma come incontro che richiede lo sguardo stesso, il guardarsi profondamente l’uno con l’altro. E` Pietro che ingaggia questa persona a guardarlo, ad entrare in contatto, a non trattarsi l’un l’altro nel ruolo di chi chiede l’elemosina e di chi la elargisce, non come il ricevitore e il donante, ma come due persone che hanno qualcosa da dirsi e possono cominciare una relazione. “Non ho né oro né argento” dice Pietro, cioè, non posso risponderti nei termini della richiesta che tu mi fai, però allargo il tuo orizzonte, cambio la tua stessa domanda, cambio la relazione come cambio la tua vita. Parto dalla tua domanda, prendo atto che tu sei un mendicante e uno storpio e che chiedi di essere considerato in queste due realtà, ma non le prendo come ciò che definisce l’orizzonte e la risposta, bensì riesco a leggere nella tua domanda, nel tuo orizzonte qualcosa di più e quindi implicitamente o esplicitamente ti dico: tu devi chiedermi qualcosa di più, non puoi chiedermi soltanto un’elemosina. “In nome di Gesù Cristo alzati e cammina”. In questa semplice frase c’è un allargamento di orizzonte. Da un punto di vista umano “alzati e cammina” prospetta nuovi valori umani: salute, indipendenza, autonomia, possibilità di costruirsi un avvenire. Ma tutto questo è fatto “in nome di Gesù Cristo risorto”, di questa persona che non conosci e che io ti richiamo, che ti metto come una sfida, ti si apre non solo l’orizzonte di camminare, essere autonomo, sviluppare una vita tua, ma anche di entrare in contatto con la realtà di Dio stesso fatto uomo. Un aiuto che riformula, ristruttura ma anche un intervento miracoloso.
Se non operare un miracolo, tocca a noi come formatori provocare, attraverso un incontro, un cambiamento di vita. Il mandato missionario dato agli apostoli e ai discepoli si pone su due livelli ben diversi: “Guarite i malati, date la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, fate camminare gli zoppi” ma anche “ annunciate che il regno di Dio è presente”(Mt. 10,5-8). Da un lato aprire un orizzonte del tutto trascendente fatto però storico (il regno di Dio è presente) e dall’altro aiutare i sordi ad ascoltare, i ciechi a vedere e gli zoppi a muoversi in modo migliore, cioè a fare una decisione che riattivi il cammino.
Chi è aiutato così se ne va gioioso. Ha trovato una motivazione. Mentre la depressione accompagna una vita senza speranza, chiusa in se stessa e non più aperta a nuove possibilità, la gioia è il segno della presenza di uno spirito nuovo che ha trasformato, ha rimesso in funzione, ricuperando una realtà già presente (siano esse le gambe o un corpo) che può esercitarsi in un contesto nuovo e con una nuova emozione.


Imparare ad essere e insegnare a divenire
La pedagogia è anche imparare a ripetere alcune cose ricevute da altri, siano esse gesti, riti, movimenti o conoscenze: ripetere qualcosa che ci viene fornito e ricuperarlo se lo abbiamo perduto. Ma, oltre questo contributo cognitivo, pretende di più. Offre strumenti per “imparare ad imparare”. La persona formata non ha ricevuto soltanto un contenuto, una dottrina sia pure magnifica, ma ha “imparato ad imparare” come questa dottrina si può rivelare nuova continuamente e costantemente. Dare un sistema può condannare la persona ad essere vecchia in breve tempo, mentre l’aver appreso ad imparare è darle la possibilità di far fronte ad un’epoca che rivela e riserva cose nuove e anche cose vecchie continuamente.
Un terzo passo è imparare a fare, a vivere. E’ il terreno delle relazioni umane dove occorre decidere, scegliere, attuare. La formazione, oltre che cognitiva, è esercizio in cui si inizia a vivere in un modo nuovo e a farlo con l’accompagnamento dell’educatore. Si aggiunge non solo un operare, un fare, ma un farlo in un certo modo, per certe ragioni, con certe motivazioni. Essere vivi non è solo impegnarsi, decidere, ma il perché farlo, per quali valori impegnarsi anche nelle scelte minori. Il perché lo si fa è, finalmente, ciò che conta. Mi pare estremamente suggestiva l’immagine di quello sguardo di Gesù quando, salendo al tempio, in mezzo ai gran signori che ostentatamente fanno cadere le borse pesanti nel tesoro del tempio, scorge la vecchietta che mette furtivamente la sua moneta (Mc., 12,41-44). Lo sguardo di Gesù penetra e sa vedere che in quell’atto piccolo, minimo, c’è qualcosa che vale molto di più della donazione grandiosa di chi può permettersi di dare il superfluo. Questa donna ha dato ciò che è necessario per la sua vita. Anche con l’aiuto dell’introspezione psicologica, l’educatore sa risalire a scoprire quelle aree che sono necessarie per la nostra vita: sono queste quelle importanti da dare.
Imparare noi e imparare ed insegnare a divenire sono tre passi che costituiscono un processo dinamico e non statico. Anche chi ha fatto esperienza di una trasformazione motivante trasmette una novità che diviene. Il mistero di Dio e il mistero della persona umana non sono qualcosa di chiuso ma un divenire sempre più profondo. Lo scriba dotto del regno dei cieli è colui che riesce ad estrarre dal suo tesoro cose nuove e antiche. Se sono totalmente nuove vuol dire che sono false, se sono totalmente vecchie vuol dire che sono morte. Qualcuno ha detto che il tradizionalismo è la dottrina vecchia di persone che sono morte, mentre la tradizione è la realtà antica e nuova di persone che sono vive. L’educatore è chiamato ad operare continuamente in quest’ambito facendo sì che queste realtà siano viventi in lui.
Da ultimo, è bene ricordare che la suddetta opera educativa si attua nel contesto dell’alleanza dove il partner principale dell’uomo è Dio stesso che nell’uomo agisce con la forza dello Spirito. Lo Spirito è il grande mediatore che mette insieme il Padre e il Figlio e permette al Padre di essere Padre e al Figlio di essere Figlio. Della mediazione dello Spirito nel cuore umano, l’educatore è partecipe. Questo modello che qualcuno ha chiamato la metafora della grazia ci ricorda che lo Spirito è qualcosa di ricevuto e non lo possiamo fabbricare psicologicamente. E’ la realtà nella quale ci muoviamo, e ponendoci nell’ambito di Dio che si è dato a noi e dello Spirito, è l’evidenza che l’alterità è sempre qualcosa di vicino a noi, di diverso ma di più profondo nell’intimo di noi stessi. Diceva S. Agostino che Dio è sempre al di là di quello che io posso essere ma sempre più all’interno di quello che sono io. E’ nella debolezza che siamo forti, (S. Paolo poteva dirlo nello spirito) non operando attraverso il potere, il ricatto, la costrizione perchè nel momento in cui si è deboli, disponibili e si diviene vulnerabili, che si può lasciar passare la potenza dello Spirito che poi opera con la sua forza. Così nell’ambito affettivo è quando c’è la suprema povertà e il distacco che si può sperimentare quella gioia. Non sono cose nuove che possiamo fabbricare noi ma è la mediazione dello Spirito che può operare. Di tale mediazione l’educatore è investito.
In termini educativi ciò vuol dire che la dignità umana, l’immagine stessa di Dio è consegnata e viene a dipendere dalle fragili relazioni con altri soggetti umani dove la vulnerabilità delle parti predispone ad illusioni, limitazioni o abusi; ma allo stesso tempo sono proprio queste fragili relazioni umane a divenire il canale e la mediazione per la costituzione, l’offuscamento o spesso per la ricostruzione di questa dignità. Tutto ciò è qualcosa di meraviglioso e di tremendum, (sono queste le due caratteristiche del mistero, come diceva R. Otto), qualcosa che ci affascina, ci attira e nello stesso tempo temiamo, perché sappiamo che avvicinandoci alla persona umana possiamo da un lato danneggiare o non promuovere come dovremmo, ma nello stesso tempo avere un’opportunità e una meraviglia che è il segno  del mistero che ci si presenta in colui che vogliamo accompagnare.


 
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