«Persona e formazione. Riflessioni per la pratica educativa e psicoterapeutica»


Carlo Bresciani



Essendo un libro scritto (a cura di A. Manenti - S. Guarinelli - H. Zollner, EDB, Bologna 2007, pp. 435) in collaborazione per lo più da ex studenti dell’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana e da ex studenti dell’Istituto Superiore per Formatori, sponsorizzato dalla stessa Gregoriana, non può che collocarsi nell’orizzonte di quell’approccio interdisciplinare alla formazione che fin dalle sue origini, questi Istituti hanno sempre cercato di perseguire con rigorosità scientifica e metodologica.


Uno sguardo generale al contesto

L’opera è una ripresa, un approfondimento e un’ulteriore esplicitazione dei concetti fondamentali della teoria antropologica di riferimento dell’Istituto di Psicologia della PUG e dell’ISF, promosso da ex studenti dell’Istituto di Psicologia. Non si tratta di una semplice ripresentazione della teoria, bensì di una sua rilettura critica, che apre nuove prospettive e possibilità di ulteriori approfondimenti.
Come si addice ad una ricerca scientifica che, sia nella teoria sia nella pratica, non può mai ritenersi conclusa -tanto meno quando si tratta di una teoria sul mistero della persona umana, del suo sviluppo e della sua formazione-, essa ha bisogno di essere ripresa, rimeditata ed esplicitata tenendo conto dei vari apporti provenienti dalle diverse discipline con le quali si mette appunto in dialogo interdisciplinare.
L’intento dichiarato, fin dalle sue origini, dell’Istituto di Psicologia della PUG è la formazione della persona, ricorrendo all’utilizzo di quanto le scienze psicologiche sono in grado di offrire come aiuto. Agli inizi l’Istituto aveva messo a tema prevalentemente la persona consacrata, anche per urgenze ecclesiali particolari, ma successivamente l’attenzione e lo studio si è allargato alla persona tout court, benché sempre rigorosamente in prospettiva cristiana.
Questo intento ha portato fin dall’inizio alla necessità di elaborare un rigoroso approccio interdisciplinare tra la psicologia e l’antropologia cristiana, ben consapevoli delle difficoltà connesse, e ha richiesto subito lo sforzo di elaborare un’antropologia capace di rendere conto e di com-prendere non solo i valori della vita cristiana, ma anche i processi umani che sottostanno alla crescita in essi. Una sfida certamente notevole e una fatica teorica di grande respiro scientifico, anche perché si trattava di operazionalizzarla, così da essere non solo «verificata» con gli strumenti dell’indagine psicologica e statistica, ma anche utilizzata nella pratica psicoterapeutica o, più in generale, di accompagnamento delle persone nel loro processo di crescita umana e cristiana.
Se si comprende l’arditezza di un tale progetto, nessuna meraviglia che l’impresa debba andare incontro a ritocchi e approfondimenti successivi. La meraviglia caso mai è che l’antropologia elaborata si sia rivelata valida e che sostanzialmente possa essere ancora valido punto di riferimento, come i teologi e i filosofi che hanno contribuito al presente volume testimoniano.


La struttura del libro

Ho già detto che non si tratta di una semplice raccolta di contributi: una precisa linea redazionale li pone in sequenza concettuale e tematica per una rilettura e un approfondimento della teoria e della pratica che ispira i due Istituti ricordati, instaurando un confronto dialogico tra teologi, filosofi e psicologi che a mio modo di vedere è risultato molto fecondo, ricco di stimoli teorici e pratici di assoluto valore. È indubbiamente uno dei pregi di non poco conto dell’opera. Nell’attuale frammentazione del sapere e spesso incomunicabilità tra le diverse discipline, riuscire anche solo a far dialogare in modo serio e approfondito specialisti di diverse discipline è di per sé già un guadagno da apprezzare in tutta la sua novità.
La prima parte dell’opera, quella per così dire teorica, affronta la tematica della persona umana e il modo in cui viene compresa dai più recenti approfondimenti della psicologia del profondo. Il superamento della prospettiva antropologica accentuatamente individualistica della prima psicoanalisi ha portato a un recupero della prospettiva relazionale certamente più adeguata a comprendere la persona umana e i processi del suo sviluppo. È proprio la prospettiva relazionale che permette agganci molto significativi per un dialogo interdisciplinare con la comprensione cristiana della persona umana che vede nella relazione (con Dio e con gli uomini) la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano, il contesto nel quale egli viene alla coscienza di sé e si sviluppa. L’identità della persona non può che essere un’identità relazionale.
La seconda parte dell’opera mette in dialogo tra loro teologi e filosofi (A. Tapken, K. Baumann, D. Moretto, A. Scanziani, A. Fumagalli) che si confrontano con, e confrontano, la riflessione antropologica tematizzata nella teoria psicologica che fa da riferimento ai due Istituti. Ne emergono stimoli, puntualizzazioni e sviluppi che, a mio modesto avviso, sono di grande valore teorico per un approfondimento del dialogo interdisciplinare a vantaggio di tutte le discipline coinvolte. Questa seconda parte è un ottimo esempio di come sia possibile un dialogo interdisciplinare serio, onesto, fecondo e rispettoso delle varie competenze scientifiche. Il punto di incontro nel dialogo tra le diverse discipline coinvolte non può che essere l’antropologia sottesa dall’approccio psicologico ed è su questo terreno che si instaura uno scambio reciprocamente arricchente. Uno scambio che non va lasciato cadere, ma che deve essere incrementato.
La terza parte affronta alcuni aspetti specifici che si incontrano nella pratica educativa e psicoterapeutica, quando si pensa la persona come mistero e aperta alla trascendenza (S. Guarinelli, A. Manenti, C. Bresciani, T. Costello, B. Dolphin, M.P. Garvin, C. O’Dwyer, T.E. Merandi). Non è una parte di poco rilievo scientifico: pratica, qui, non vuol dire per nulla affatto assenza o debolezza di approccio teorico. Non si può, infatti, che pensare una circolarità continua tra teoria e pratica, soprattutto quando si ha a che fare con il mistero della persona che lotta perché quel mistero nascosto in lei venga alla luce. Per certi aspetti è la parte più nuova perché, dal punto di vista editoriale, è la prima volta che viene esplicitata per scritto la pratica psicoterapeutica e di accompagnamento che è adottata dai nostri Istituti.


Alcuni spunti sui contenuti
   
Un termine mi pare che ricorra frequentemente: intersoggettività.
Viene richiamata l’intersoggettività nella psicoanalisi e nella psicologia del profondo. La A.-M. Rizzuto usa un termine molto significativo «compenetrazione»: essa sta alla base dello sviluppo. «Il processo di sviluppo della persona umana è conseguenza della continua compenetrazione dell’organismo e del suo ambiente umano» (p. 51); le strutture psichiche del bambino sono il frutto della compenetrazione della vita psichica degli adulti e del bambino (p. 56); gli adolescenti hanno bisogno di una «compenetrazione delle menti nella ricerca della verità» (p. 63); «la cura psicoanalitica non può darsi senza […] la compenetrazione dell’esperienza affettiva tra paziente e analista» (p. 66), lo stesso vale per lo sviluppo sessuale della persona (p. 69), per la compenetrazione di essere tra Creatore e creatura (p. 70). La conclusione dell’analisi della Rizzuto è che «La compenetrazione affettiva degli esseri condiziona la possibilità della formazione di un Sé veramente capace di credere in se stesso, negli altri, in obiettivi e ideali, e in Dio» (p. 71).
L’intersoggettività è richiamata nell’approccio teologico e filosofico: A. Tapken prende in considerazione le nuove teorie psicoanalitiche intersoggettive che sostituiscono i vecchi concetti di una volta (soggetto, io, individuo), non innocenti rispetto al dilagare del narcisismo, con nuovi paradigmi (relazione, intersoggettività, alterità). Giunge alla conclusione che «nel dialogo con le nuove teorie psicoanalitiche intersoggettive l’antropologia cristiana può portare un concetto forte di persona» (p. 123) e così «mettere di nuovo in dialogo i nuovi risvolti della psicoanalisi contemporanea con la teologia cristiana, in base alla dimensione intersoggettiva della relazionalità umana» (p. 122). F. Scanziani ricorda che l’alterità è «dimensione originaria e costitutiva dell’antropologia cristiana» (p. 193), la quale non può che originarsi dal rapporto con quell’alterità creatrice che è Dio stesso. Ma si tratta di un’alterità che costituisce l’uomo come un partner di un dialogo libero, come figlio amato.
L’intersoggettività è centrale nella pratica educativa e psicoterapeutica. S. Guarinelli, analizzando la relazione terapeutica, afferma che il terapeuta «assume la parte di quell’alterità in grado di rilanciare lo sviluppo» (p. 282-283). La terapia come «campo intersoggettivo» di un «gioco» non lasciato al caso. In modo analogo, sia pure con terminologia diversa procede A. Manenti.
Tra i tanti aspetti, mi pare questo dell’intersoggettività un ambito non artefatto di possibile dialogo fecondo tra psicologia, filosofia e teologia.


Intersoggettività e relazione

Intersoggettività dice qualcosa di più di semplice relazione: dice relazione tra due soggettività che si riconoscono e si rapportano tra loro come soggetti, liberi e responsabili, entrambi sempre in ricerca del mistero che in loro si rende presente. L’intersoggettività è strettamente collegata al raggiungimento della piena coscienza della paternità e della figliolanza (due strutture fondamentali dell’umano): è strettamente collegata anche alla piena percezione del nostro essere figli di Dio nel Figlio Gesù. Anche la pratica di accompagnamento e di psicoterapia non può che essere compresa come rapporto di due soggettività. La stessa formazione della persona richiede un rapporto che la riconosca pienamente nella sua soggettività. Le dinamiche che tale rapporto instaura sono propiziatrici di uno sviluppo della persona nella misura in cui entrambi si riconoscono e si danno reciproca conferma della propria soggettività, sia pure nelle lotte generate dal confronto con la propria interiorità che s’interroga e con il mondo esterno non sempre corrispondente ai propri desideri. Lotte che possono svilupparsi a diversi livelli: psicologico o spirituale, ma che in radice sono lotte della persona per giungere alla verità di sé nella relazione con l’altro da sé e, ultimamente, con Dio.
Significativa, a questo proposito, l’affermazione di H. Zollner: «la mia libertà di formare un Sé proprio si dimostra nella mia capacità di andare non solo oltre me stesso, ma anche verso ciò che è altro, verso gli altri e l’Altro. Così imparo a leggere la mia vita come mistero e come luogo della manifestazione del mistero di Dio» (p. 99). Il mistero dell’uomo alla fine non può che essere compreso nel mistero di Dio. L’intersoggettività esige trascendenza di sé verso il mistero dell’altra persona. Solo un’autentica intersoggettività apre alla trascendenza di sé, il cui termine ultimo è la trascendenza nel mistero di Dio.
In questa luce la conclusione del contributo della Rizzuto mi pare estremamente significativo: «Forse questo è il più grande mistero nel mistero: che noi non siamo mai pienamente noi stessi se gli altri non entrano a costituire parte della stessa struttura del nostro essere biologico e psichico. Forse questo è il modo ontico di Dio di farci conoscere che noi siamo effettivamente solo delle creature» (p. 72).
L’intersoggettività vissuta in tutte le sue esigenze intrinseche si presenta veramente come un possibile cammino verso Dio (cfr. contributo di Bresciani), cui la psicologia può dare il suo contributo non secondario.