Intervento di Franco Imoda s.j.


Fondatore Istituto di Psicologia - Pontificia Universita' Gregoriana
 
 

Anzitutto un ringraziamento a S. Ecc Mons. Michael Miller, Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica e alla Prof. Rizzuto che ha risposto all’invito prestando attenzione e facendo convergere la sua preziosa competenza nella ricerca con alcune delle nostre preoccupazioni fondamentali.

Ai colleghi che hanno voluto ricordare questi anni di lavoro dedicandomi un libro, in particolare i curatori e gli autori.
E a tutti i presenti che hanno voluto prendere un po’ del loro tempo per essere qui oggi.
Un pensiero riconoscente va alle tre Istituzioni che hanno contribuito anche finanziariamente all’evento: la Prof.ssa Gabriella Iacovoni del Centro Studi Cassia, il Prof Alfio Cascioli della Scuola Romana di Psicologia del Lavoro, e la Dott.ssa Amalia Piraino del Centro di Psicoterapia della Biomedica Roma.

E’ difficile in pochi minuti dare un minimo di eco, che si voglia adeguato, a tante voci che possono farsi udire in questo momento. Voci che provengono dalle parole di S.E. Miller, dalla ricca presentazione, ma anche dal contesto evocato dalla presentazione del libro e dal richiamo ai temi e alle preoccupazioni che per diversi anni sono stati centrali per l’Istituto di Psicologia. Fin dall’inizio dell’IP, infatti, convinti del valore della ricerca e di un continuo approfondimento di teoria e di prassi, in un contesto interdisciplinare, ci siamo sentiti spinti e continuiamo a sentirci spinti a lavorare nella formazione dei formatori.

Vorrei solo fare menzione di persone come P. Rulla, Joyce Ridick, Gilles Cusson e tantissimi altri senza i quali l’Istituto non avrebbe mai iniziato la sua missione.

I Superiori di allora il Card Garrone, allora Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, P. Arrupe SJ, Superiore Generale della Compagnia di Gesù, P. Carrier SJ, Rettore Magnifico della Gregoriana, e coloro che alla Gregoriana hanno dato fiducia al progetto. Così più recentemente alla Congregazione dell’Educazione cattolica, i Prefetti Card. Laghi e Card. Grocholewski, S.E. Miller e Mons. Zani che ci hanno richiesto ulteriori sviluppi attraverso il Corso per formatori e la Scuola per Formatori, e si sono mostrati amici, dandoci fiducia.

 

 

Capacità di credere


Già S. Agostino aveva formulato il tema quando, parlando della mente umana, scriveva "Eo mens est imago Dei, quo capax Dei est et particeps esse potest" (De Trinitate XIV:11).
Della capacità di Dio, di credere in Lui, della capacità fondata nella mente e nel cuore umano si potrebbe forse dire – per analogia – quanto B. Lonergan scriveva della libertà umana, distinguendo una libertà essenziale e una libertà effettiva. Da un lato la fondamentale capacità, data a tutti, come potenzialità, radicata (come ci ha appena ricorda A.-M. Rizzuto) nel corpo, nella psiche e nello spirito, e d’altra parte la sua attuazione, il suo esercizio, la sua realizzazione più o meno completa, matura.

Tra le due capacità – che non si identificano e neppure automaticamente si armonizzano - si pone un cammino, un percorso, spesso una lotta che qualche volta ci vede vincitori, e qualche volta vinti; e quindi un progetto educativo/formativo non sempre facile.

Forse si può dire – in estrema sintesi – che l’Istituto di Psicologia ha cercato fin dall’inizio di porsi in questo spazio, ancora lasciato assai vuoto, come uno strumento, attraverso la ricerca, la formazione, al servizio di un progetto educativo che si vuole attento a tutta la ricchezza espressa sia dalla dimensione religiosa che a quella umana.

Nella lettera agli Ebrei (3, 5) si legge che “In verità Mosè fu fedele in tutta la casa di lui come servitore (θεράπων), per rendere testimonianza di ciò che doveva essere annunziato più tardi”; un servizio (terapia) perché la capacità fondamentale della persona aprendosi alla trascendenza, nel credere, nello sperare e nell’amare, possa attuarsi in un incontro di tutta la persona con il Dio rivelato in Gesù Cristo. (Gaudium et Spes nn 22, 24)

Che cosa fare, o meglio, come porsi per esercitare questo servizio, questa “terapia” affinché la fondamentale capacità umana di aprirsi a Dio sia attuata autenticamente? Verrei così – avendo più tempo - a sottolineare quanto espresso dalla Prof.ssa Rizzuto circa l’importanza della presenza umana in questo passaggio/trasformazione. La capacità effettiva della persona è infatti tutta da fare, se non da ritrovare, da rievocare, o ancor più, spesso, da ri-fare.

Guardando quindi alla capacità di credere, tema di questo incontro, ma come orizzonte e fondamento della missione dell’Istituto di Psicologia, vorrei accennare ad alcuni aspetti del percorso formativo, sforzandomi di esercitare la capacità di credere, per cogliere, almeno in prospettiva, come la luce della parola di Dio potrebbe illuminare e guidare l’avventura umana.

Il lavoro, gli sforzi umani devono poter essere letti alla luce della relazione con il Dio vivente, così come lo sviluppo umano non sarà mai solo un gioco di forze psicologiche, ma luogo in cui si attua, o, più o meno tragicamente, si tradisce la sua realtà profonda.

S. Ignazio raccomandava la ripetizione e il suo valore pedagogico.

Mi metterò alla sua ombra per evocare tre icone, prese dalla parola di Dio, da me spesso menzionate ma che non perdono, con il tempo e la ripetizione, nulla del loro valore. Anzi - proprio nel dialogo e nel confronto con l’esperienza - si arricchiscono e confermano la loro capacità di pedagogia parabolica.

Richiamarle, non vuol dire dunque pretendere che siano l’espressione e il riflesso perfetto di quello che è stato fatto, operando una specie di “canonizzazione”, ma vuol dire, piuttosto, invocare – proprio grazie alla capacità di credere – un triplice raggio di luce che illuminando il passato possa anche indicare una traccia per il futuro.

Tre narrazioni evocative, il cammino di Emmaus, l’incontro di Pietro e Giovanni con lo storpio alla porta bella del tempio, e l’obolo della vedova. Sono da prendere come “parabole”, come tela di fondo del “servizio” o terapia ed eventualmente progetto. Esporre alla loro luce il tempo dedicato al compito formativo, le molte persone incontrate, gli studenti e quello che sono divenuti, gli scritti e i viaggi, può divenire un esercizio di quella capacità di credere che ci siamo proposti come tema, ma anche costituire un esame di coscienza nel presente, per informare sempre di più la missione nel futuro.


Il viandante di Emmaus (Lc 24)

Divenire capaci di credere aprendosi al trascendente che entra nella storia avviene sempre attraverso una mediazione, un incontro. Il percorso formativo è sempre incontro, una serie di incontri, un viaggio che si percorre con un altro, con altri, ma in vista di incontrare l’Altro.

Ci viene offerta narrativamente la figura di un viandante, inizialmente sconosciuto e discreto, che si affianca a due viandanti confusi, ma anche tristi e delusi. Il loro sogno di un progetto vincente, incarnatosi nell’incontro con un vero maestro, con una guida, si è infranto miseramente di fronte ad una realtà inaspettata e crudele. Stanno tornando depressi ad un passato.

Il viandante li raggiunge non solo fisicamente sul loro cammino, ma instaurando un dialogo che parte dalla loro situazione ed esperienza per aprire loro un orizzonte prodigiosamente nuovo, li aiuta nella capacità di credere, non senza essere entrato nella loro esperienza vissuta e sofferta, e insegnando loro a leggere con una luce nuova, e l’aiuto della storia, gli eventi ancora scottanti che li hanno lasciati feriti e delusi.

Dopo un momento conviviale di intensa presenza, il viandante si allontana, lasciando quei discepoli forse soli, ma anche trasformati – con una nuova presenza - nella loro capacità di vedere la realtà, di ritrovare una missione che li proietta in avanti ed invertendo una rotta regressiva: suscitando un ardore interiore capace di riempire i loro cuori di consolazione e di gioia. Potremmo dire che dall’incontro riscoprono la gioia di vivere.

Il viandante trasforma la capacità di credere, e la attua rinnovando una visione di sé e del mondo che schiude orizzonti e possibilità che sembravano perdute. La rilettura e il ricupero del passato diventano una forza per trasformare quello che appariva una necessità, un fato, in una nuova opportunità.


Pietro e Giovanni alla Porta Bella del Tempio (At 3)

Divenire capaci di credere. Abbiamo spesso insistito sulla mediazione che coinvolge esistenzialmente lasciando coinvolgere la nostra umanità. Abbiamo cercato di impararne la grammatica e la sintassi non solo del comunicare una visione e dei procedimenti, ma di metter dei semi di novità di vita di rinnovato impegno della libertà che fruttifichi nel progetto di un dono sincero di sé.

Ancora una volta il paradigma non lo possiamo inventare noi, la metafora della grazia, lo riceviamo.

Pietro e Giovanni subito dopo la Risurrezione ritornano alla vita ordinaria . Salgono al tempio a pregare come forse tante altre volte, ma questa volta avviene in un clima di novità e di promessa. Lo storpio che viene ogni giorno portato a mendicare alla porta Bella è come simbolo di una umanità che non riesce a guardare molto lontano, a sollevare lo sguardo e a sperare, che si sente passivamente costretta da un limite alla libertà ed è triste.

Pietro e Giovanni hanno certamente già incontrato quel uomo storpio che chiede l’elemosina. La sua “domanda” è rinchiusa e ridotta nel chiedere una moneta; ma essi lo vedono in modo nuovo e fissando gli occhi su di lui e dicendogli ‘Guardaci’ entrano nella sua vita e suscitano l’aspettativa di qualcosa di più: “Non ho né argento né oro, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo Nazareno, cammina!”

Capacità di credere: suscitata, attuata, trasformata nell’incontro.

La domanda dello storpio, la sua persona è presa in considerazione, presa sul serio, ma non per rispondervi senz’altro. Il maestro cambia la domanda. Aprendo un orizzonte nuovo, rende possibile credere ad una vita nuova, è possibile mettersi in cammino, vivere impegnando la libertà, da “persona” non solo da “storpio” o da “mendicante”. E’ possibile incontrare l’origine e fonte della vita e della libertà: quel uomo di Nazareth in cui si trova la piena umanità.
 

L’obolo della Vedova (Lc 21 1-4)

Ma c’è un’ultima icona che si può evocare.

E’ quella della povera vedova che, nascosta nella folla fa scivolare le due piccole monete nel tesoro del tempio, mentre altri, ostentatamente, contribuiscono con donazioni cospicue.

Che cosa abbiamo fatto? Davanti alle immense sfide che da ogni parte si affacciano e ci provocano quale contributo abbiamo dato? Quale contributo potrebbe dirsi risolutivo o anche solo adeguato?

Ma questa povera vedova ha messo più di tutti perché gli altri hanno messo parte del superfluo, mentre lei, nella sua miseria, vi ha messo quanto aveva per vivere.

Molte volte abbiamo ricordato a noi stessi e agli studenti che non è tanto il “che cosa” facciamo, operiamo, contribuiamo, o costruiamo, ma il “perché”, la motivazione, e il “come”, nell’impegno nell’umiltà nel rispetto.

Se il fine, l’intenzione profonda, se la motivazione fondamentale che informa l’operare sono come la casa fondata sulla roccia raggiunta dalla capacità di credere, allora anche il poco, il piccolo il seme diventa importante, valido, duraturo.

Tempo fa, scrivendo il libro sullo sviluppo, mi era uscito dalla penna un paragrafo che, rileggendo più tardi, ho ritrovato significativo, meravigliandomi anche d’averlo scritto. Credo che la Prof.ssa Rizzuto potrebbe ritrovarsi in queste parole; certo mi sono ritrovato nelle sue; e se cosi fosse mi darebbe grande gioia.

Ecco il paragrafo, che leggo, con l’augurio che i discepoli, superando sempre i maestri continuino nel progetto di trasformare la capacità di credere iscritta come potenzialità nella persona umana, in una testimonianza viva e carica di frutti, qualunque siano le circostanze e le difficoltà che li circondano:

“L'esistenza di riferimenti e di connessioni tra le umili vicende e concomitanze dello sviluppo della vita umana e i grandi temi della vita e della morte, per cui il destino di queste realtà formidabili può in qualche modo "giocarsi" negli stadi originari dello sviluppo, è forse una della manifes¬tazioni più stupefacenti del mistero della persona. Che la dignità umana, l'immagine stessa di Dio sia consegnata e venga a dipendere da fragili relazioni con altri soggetti umani in cui la vulnerabilità delle parti predispone ad illusioni, a limitazioni, ad abusi; e che, allo stesso tempo, siano proprio queste fragili relazioni umane a divenire il canale e la mediazione per la costituzione, per l'offuscamento o spesso per la ricostituzione di questa dignità, è qualcosa di meraviglioso e di "tremendum". (Sviluppo umano. Psicologia e mistero, p. 431).

 

Presentazione del volume "Persona e Formazione"  in onore di p. Franco Imoda S.J.
Roma, 30 marzo 2007