Convergenza ma non troppo


Editoriale
Tredimensioni 3(2006) 2, 116-123



In questi ultimi vent'anni la relazione fra psicologia e religione (ci riferiamo a quella cristiana) è abbastanza cambiata. Siamo lontani dai tempi della critica alla religione – di radice freudiana – come illusione ed espressione di bisogni infantili.

Ci sembra, però, che per questa convergenza la religione paghi un prezzo troppo alto. È, sì, rivalutata dalla psicologia ma dopo essere stata svuotata del suo contenuto e quindi – di fatto – riportata nel regno dell’illusione, non più per ragioni di svalutazione ma di astensione e neutralità. Il che non cambia molto.


Evoluzione in seno alla psicologia
Molti sono gli autori contemporanei che riconoscono alla religione un ruolo importante nello sviluppo sano e nella vita matura. Per citarne alcuni: William W. Meissner , Ana-María Rizzuto , C. Neri , F. Odilon De Mello , R.H. Cox , Michael Eigen , James W. Jones .

Una ragione della simpatia la troviamo nell’evoluzione del concetto stesso di psicoterapia il cui scopo è sempre più passato da quello di rendere conscio l’inconscio (nel linguag-gio del modello topico), o trasformare l’id in ego (nel linguaggio del modello strutturale), al promuovere lo sviluppo dell’io. In questo processo di umanizzazione dell’uomo, la psicologia del profondo riconosce alla religione il ruolo positivo e salutare di esprimere e rinforzare le desiderabili capacità di relazione che il soggetto può raggiungere con se stesso (fiducia, creatività, slancio…) e con gli altri (intimità, comprensione, sollecitudine, empatia…).

Un’altra ragione è nella rivalutazione dell’illusione. Partendo dagli studi di Winnicott (non a caso molti simpatizzanti della religione si rifanno a lui), oggi l’illusione non è considerata solo un meccanismo di difesa che soddisfa con lo spostamento o l'evasione ciò che nella realtà rimane frustrato. Al pari della fantasia, l’illusione fornisce anche uno «spazio transizionale», molto importante per l’acquisizione di una soggettività consapevole di sé. È lo spazio libero, in cui confluiscono elementi antitetici (interno/esterno, soggettivo/oggettivo, vero/falso, inventato dalla mente/esistente nel reale...), dove in fondo ciò che importa non è la prevalenza di un polo sull'altro (determinare ad esempio se è vero o falso), ma la possibilità che i due elementi convivano. La religione (come l’arte) trova il suo posto legittimo in questo spazio in cui l’io può muoversi liberamente senza dover prendere decisioni. Religione rivalutata, dunque, anche se collocarla in questo spazio è la premessa per sostenere che l’importante della religione non è che dica o no delle verità, ma che costituisca una spazio transizionale per lo sviluppo dell’io.


Religione svuotata
Ma a che tipo di religione si rivolge la benevolenza della psicologia? A parte autori come Meissner e la Rizzuto per i quali il contenuto della religione è una questione psicologi-camente significativa, la religione viene intesa come uno stato d’animo interiore di generica e vaga apertura alla esperienza di sé e del mondo, un’aspirazione interiore ad agire con libertà e benevolenza, spogliata da ogni aspetto istituzionale e dogmatico (per i quali il sospetto psicologico continua ad esistere). È una religione vuota di storia, riti, autorità, obblighi e mediazioni, compatibile con la negazione dell’esistenza di Dio dato che la sua rilevanza è nell’esperienza soggettiva che induce, piuttosto che nel contenuto che propone. Ma nessuna religione è valida se non ha precisi contenuti da proporre perché li ritiene veri.

La simpatia che oggi la religione riceve dalla psicologia (e non solo dalla psicologia) è un po’ magra perché è simpatia per lo stato d’animo che essa sa indurre ma non per il contenuto che propone e tanto meno per la verità di quel contenuto. Oggi sembra di moda questo messaggio: ben venga la religione ma che cosa essa dice è secondario e che quello che dice sia vero o no è irrilevante perché la vita vera si gioca su altri tavoli. Su queste basi si può amoreggiare con una religione che fa bene al cuore ma non graffia la realtà.


Tre livellI
È vero, la religione suggerisce un certo modo di essere nel mondo (fiducia, creatività, slancio, intimità, comprensione, sollecitudine, fraternità.... ). Ma non è qui il suo nucleo. Questi modi hanno senso perché si fondano sui contenuti che essa professa. Il cristianesimo non è un certo modo di sentire la vita ma Parola di salvezza, universale, rivelata ed escatologica. Se propone di vivere con spirito aperto e benevolo è perché afferma che Dio si è manifestato a noi attraverso il Figlio (mistero della trinità) che fattosi uomo (mistero dell’incarnazione) ci ha insegnato «la» via che porta al Padre. In terzo luogo, la religione professa questi contenuti come veri. Quando dice che l’amore di carità vince il male intende dire una cosa vera: l’amore ha successo, è così, succede davvero così, non può essere diversamente. La via della carità non è una metafora, semplice opinione, finzione, teoria, idea consolatoria, illusione…

Sul primo aspetto (apertura all’esperienza) la psicologia ha occhi di simpatia: lo riconosce come valido e maturo e può anche empiricamente fornire la prova della sua utilità per vivere .

Sull’aspetto dei contenuti si limita ad una «benevola neutralità». Su quelli si dichiara non competente e li rispetta come questione che non le compete.

Sul terzo aspetto, quello della verità del contenuto, è indifferente. Qui il ponte si spezza. Non perché la psicologia ritenga che quei contenuti siano falsi ma perché per la psicologia la questione della verità/falsità non è neanche da porsi. Per la psicologia di oggi, la religione è utile, che cosa dice è rispettabile, che poi sia vero quello che la religione dice è irrilevante. Questo si potrebbe anche capire se per verità religiosa si intendesse un enunciato teorico che, come ogni teoria, può essere accettato, rifiutato o ignorato. Questa non considerazione costituisce, invece, una casella mancante nella comprensione e terapia del cuore umano perché quella verità si offre come chiave risolutoria ultima: siamo nati dalla verità ed è davanti a Dio che possiamo rassicurare il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri perchè Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20).

Detto diversamente, la proposta forte della religione non è il romantico esplicitare il positivo che è in noi ma la tesi secondo cui l’esperienza non si può adeguatamente spiegare su delle realtà solo umane.

La religione non si lascia troppo sedurre se è apprezzata perché rende gli uomini più umani. Neanche si spaventa se i suoi contenuti sono considerati non scientifici secondo i canoni delle scienze empiriche (ci sarà sempre una tensione fra religione e scienza): sui suoi contenuti le basta il rispetto. Diventa per lei tragico se le viene contestato (o preso come questione irrilevante o subordinata all’assenso di fede) il suo legame con la verità. In tal caso viene relegata nel mondo dell’illusione, un qualcosa di molto patetico ma che non contribuisce a definire il reale perché questa competenza appartiene soltanto alle scienze della natura e non a quelle dello spirito che scienze non sarebbero. La religione, a questo punto, è svuotata. Il binomio religione-scienza sopporta contraddizioni e contrasti ma se si spezza il binomio reli-gione-verità la religione non è più religione e scade ad ideologia opzionale se non addirittura delirante.


Il reale globale
Per la religione l’aspetto della verità dei suoi contenuti è centrale. Una religione dai contenuti metaforici è una povera religione.

Affermazione vera (ad esempio: Dio esiste) non significa soltanto che è coerente, ben organizzata in se stessa, logica secondo criteri autoreferenziali interni, qualcosa che sta in piedi solo per chi ha la fede. Vera significa che, a prescindere dall’essere creduta o meno, descrive ciò che c’è, segnala una realtà che esiste e con la quale bisogna fare i conti e senza la quale la realtà è meno realtà. Vero e reale sono due facce della stessa medaglia. Dire che un’affermazione è vera e dire che descrive il reale sono la stessa cosa: se dico che l’uomo è immagine di Dio sto dicendo che io, tu, tutti siamo immagine di Dio e non possiamo non esserlo e a prescindere da questo l’io e il tu saranno capiti meno.

Questi contenuti ultimi la religione li propone non solo a chi li accetta per fede ma anche a chi ritiene che la vita ha bisogno di spiegazioni ultime. Quando uno psicologo dice: «Io non sono teologo e neanche un filosofo. Mi occupo di religione e non di fede; posso parlare solo da psicologo che in base ai dati clinici osserva l’evoluzione sana o patologica dei processi affettivi, cognitivi, simbolici dei miei pazienti», sembra voler dire: «le verità ultime ci portano in un mondo che va bene per i filosofi e per i mistici ma che hanno poco a che fare con il decorso e la risoluzione del processo terapeutico».

Il binomio religione-verità allarga il concetto di reale, vero, scientifico, esistente. Dice che la realtà è più grande della realtà, che il mondo è più del mondo e l’uomo più dell’uomo; che il reale globale non è solo ciò che si vede e si può misurare; che la persona è più della personalità; che l’umano è più dello psichico. Dice che questo altro pezzo della realtà non è nel mondo impalpabile delle essenze metafisiche e neanche nel regno del misticismo ma è l’altra parte del reale concreto. Dice che una parte del reale non è analizzabile con gli stessi strumenti validi per l’altra, eppure le proposizioni che si usano per descriverla anche se non dimostrabili empiricamente non per questo sono finzioni, anzi, conducono la nostra mente ad una comprensione più ampia di ciò che esiste. Dice che la verità è quella che si dimostra ma anche quella che non ha prove, che scientifica è la dimostrazione ma anche l’attestazione. Che vero non è solo ciò che si misura ma altrettanto vero è che Dio esiste, è Padre, si è incarnato. In questo senso la religione pretende di essere vera: dice ciò che c’è. Questo allargamento della definizione di realtà e cura non è previsto nella psicologia attuale e chi lo propone viene tolto dall’ambito scientifico e relegato a quello metafisico delle essenze astratte.

Evidentemente la psicologia non può e non deve autenticare la verità delle affermazio-ni della religione. Di questo avvallo la religione non ha bisogno. Ma neanche le basta ricevere una benevola neutralità circa la qualità del suo dire. Vorrebbe che dell’altra parte del reale che lei segnala, la psicologia tenesse conto, non per diventare una psicologia che fa professione di fede, ma perché senza quella parte anche la realtà psicologica non è adeguatamente compresa né curata. Manca di prospettiva e profondità. La cura s’interrompe a metà, non per allergia al misticismo ma per deficit di comprensione psicologica. Non si riesce a chiudere il cerchio fra domanda e risposta, ricerca e scoperta. Per la religione si può. Per la psicologia, forse no: le domande e le risposte risolutorie rimangono in sospeso. Come capire, al di là del sintomo, quale è il vero rimprovero che il cuore si fa e chi lo può veramente rassicurare?

Quando la psicologia rispetta la verità della religione non vuol dire che la conferma ma che accetta di trattare la vita dei pazienti in modo più ampio e profondo, per motivi di completezza di conoscenza e trattamento psicologico e non per propensioni mistiche del tera-peuta. Insomma, rispettare la religione significa un modo di trattare il «penultimo» che non alieni dall’ultimo, ma che in esso muova la sua conoscenza e azione.


Accettare la distanza
«Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?". Rispose Gesù: "Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce". Gli dice Pilato: "Che cos'è la verità?". E detto questo uscì» (Gv 18,37-38).

Si può uscire per disinteresse ma anche per chiarezza.

Psicologia e religione hanno due approcci diversi al problema della verità. Il dialogo dovrà tener conto di questa inconciliabilità. Oggi la psicologia, come Pilato, rende vana la questione stessa della verità, ma anziché uscire amoreggia con la religione svuotata delle sue parole di verità e ridotta ad una specie di buddismo occidentalizzato dove Dio può essere tutto e il contrario di tutto.

La consapevolezza che ad un certo punto del dialogo c’è qualcuno che esce è fonte di tensione ma anche un importante momento per un rapporto di sincerità.


Rifiuto per rispetto
Portiamo il discorso all’estremo. Come nella vita pratica, così nel campo scientifico, i nemici della religione sono, a volte, quelli che maggiormente la prendono sul serio. La rifiutano perché ne hanno colto tutta la pericolosità del nucleo: quello di presentarsi come vero strumento di conoscenza del reale. Hanno capito che la religione pretende di parlare della realtà, per cui se si vuole agire sulla realtà o si tiene conto della religione oppure la si deve negare alla radice come illusione. Sono oppositori interessanti quelli che non glissano il binomio religione-verità ma si confrontano con quello, e proprio quello rifiutano. Sono lineari: non accettano che Dio esiste davvero, perché se accettassero questa verità permetterebbero alla reli-gione di invadere il regno del reale.

È il caso di Freud. Egli ha criticato la religione ma non l’ha svuotata. L’aveva definita illusione non perché la religione vende verità illusorie ma perché pretende di dire delle verità, anche se illusorie. Circa le rappresentazioni religiose così si esprime: «Si tratta di assiomi, di asserzioni riguardanti fatti e rapporti della realtà esterna (o interna) le quali ci comunicano qualcosa che non abbiamo trovato da noi e che pretendono da parte nostra un atto di fede . Poiché ci informano su ciò che più di ogni altra cosa è importante e interessante nella vita, attribuiamo a questi assiomi e asserzioni un valore particolarmente elevato. Chi non ne sa nulla è molto ignorante; chi le ha accolte nel proprio sapere può considerarsi ricchissimo» . È questa pretesa che Freud rifiuta obiettando che la religione non propone un pensiero veritativo ma un pensiero magico. È vero, l’ha anche dichiarata retaggio infantile di cui la maturità deve sbarazzarsi. Ma il problema non era l’infantilismo. Freud ne ha tollerati altri nella vita adulta (ad esempio l’arte o l’uso regressivo della sessualità). Ma l’infantilismo della religione no, doveva essere superato. Perché tanto accanimento? La religione va superata non perché infantilismo ma perché pretende di fare asserzioni vere riguardo al reale e questo non va, neanche se la religione venisse depurata dell’infantilismo. Freud lo aveva capito bene: accettare, da parte della psicologia, la verità della religione non significa dimostrarne la verità né fare professione di fede ma lasciarle un posto insostituibile nella gestione del reale.

Vale più l’accettazione per svuotamento o il rifiuto per rispetto?

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