Entrare nel futuro


Editoriale

«Oh! I giovani di oggi!».
Quante voci preoccupate e a volte indignate si alzano sulla loro condizione!
E a buon diritto. Sappiamo tutti delle difficoltà ad accompagnare i giovani nell'attraversare «ponti evolutivi» già di per sé piuttosto movimentati per esigenze di età e inclini a favorire deragliamenti paurosi e sbocchi problematici. Neanche i nostri bravi ragazzi di parrocchia possono dirsi certi di avere un futuro garantito di bene-essere. L’adesione ai valori (anche a quelli cristiani) non discrimina l’esito futuro, come dimostrano i fallimenti e le crisi delle giovani coppie. Non sono soltanto gli «altri» e i «lontani» a camminare nella vita con la schiena curva.


A confronto con il sociale
Allora chiediamoci: come li aiutiamo a trovare una, o meglio, «la» collocazione «giusta» nella società? Nella società, perché è lì che passeranno il resto della loro vita.

Contestiamo – è ovvio – la sequenza carriera-successo-denaro quale unico metro sul quale elaborare le proprie attese (e quelle degli adulti che stanno intorno). E dopo…? Come rispondiamo alle loro domande (a volte espresse con i gemiti e le urla della partoriente) che riguardano prima di tutto la loro condizione personale ma anche il tributo che dovranno pagare alla società?

Nell'ambiente ecclesiale si è elaborata un'attenzione, che potremmo definire programmatica, per la prima infanzia e la fase delle scuole primarie. Invece, i momenti successivi dell'adolescenza e del passaggio verso l'età adulta, e dunque dell'ingresso e della collocazione nel consesso sociale, rimangono un po’ in ombra, quasi privi di un più elaborato sostegno e se a questa età i giovani incominciano a disertare la parrocchia forse è anche perché sentono che lì rimane inevasa la loro domanda di discernere l'avvenire, sia personale che quello in cui si dovranno collocare.


Mi raccomando, fate i bravi
Nei nostri ambienti, molto in sintesi, due appaiono le linee di tendenza. Da un lato, il timore per tutto ciò che attiene alla fase del raccordo infanzia-adolescenza-età adulta («...non so dove mettere le mani...») e quindi il rischio di un astensionismo che raggiunge punte di recrimi-nazione («...la colpa è loro che non frequentano più i nostri oratori...»). Dall'altro, l'elaborazione di proposte ed esperienze che, con un termine spremuto, si indicano come «forti» (gruppi di volontariato, momenti di preghiera, attività rivolte ai bisognosi...).

Mentre la prima tendenza si connota per passività e mancanza di progettualità, la seconda – pur avendo il pregio della propositività – non è immune da rischi, quali la chiusura esclusivista nel gruppo proposto e sentito come protettivo e rassicurante, la tendenza a presentare il mondo come prevalentemente negativo e quindi da evitare, l’offerta di figure carismatiche e dalla forte leadership che assicurino le parole e le scelte giuste negli incroci della vita.

Ciò che in entrambe le prospettive appare poco considerata è la dimensione dell'integrazione tra maturità personale (compresa quella spirituale) e adeguato e significativo apporto alla collettività, intesa nel senso più ampio, e dunque la tensione al miglioramento di tutto ciò che attiene al sociale (sport, tempo libero, professione, politica, arte…). Non solo come inserirsi nel sociale ma come migliorarlo.

«Scusate, c'è posto? E dov'è?»

Aiutare i giovani a trovare un ruolo che risulti essere l'incontro maturo fra le istanze personali e quelle sociali, non è facile.

Nei nostri ambienti, per abitudine inveterata, decliniamo con disinvoltura il termine vocazione, nel quale si ricomprendono percorsi, possibilità e stati di vita spesso antitetici. Accanto ad autentici aneliti spirituali coabitano visioni misticheggianti; si possono poi trovare seri e risolutivi percorsi di maturazione personale ma, al tempo stesso, incontri magici; il termine registra anche la condizione di persone che entrano ed escono con disinvoltura manipolatoria da molteplici e-sperienze senza approdare a nulla, e giovani che vivono con coerenza silenziosa ardue scelte di vita.

Il termine vocazione, così ricco da un punto di vista psicologico, sembra essere meno significativo dal punto di vista sociologico dove invece si parla di inserimento sociale e dunque si presta come debole chiave per preparare i giovani al loro futuro (meglio il termine profezia?). Il modo in cui viene usato nella prassi il termine vocazione spesso richiama anche quel prototipo del «bravo bambino» che trova tanto spazio nella prassi pastorale, diventando così un parametro inutilizzabile già nell'adolescenza e, se riproposto, fonte di traumatiche prese di coscienza: «Adesso essere bravo che serve, dove mi porta e che cosa vuol dire?». Non è raro il caso di presentare la famiglia cristiana come vocazione in alternativa e contrapposizione al sociale, per poi – a famiglia costituita – insistere sulla presenza sociale della famiglia cristiana o, con gli stessi termini antitetici anziché profetici rispetto al «mondo», motivare la propria scelta religiosa o sacerdotale.


Restare a fianco
Alla luce dell'esperienza possiamo affermare che occorre rimanere nella domanda di senso che il giovane incomincia a porre a se stesso, frenando la voglia (di noi educatori e genitori) di «stoppare» la domanda emergente con pronte ed esatte risposte. Chi si atteggia ad oracolo o an-che più semplicemente a professore della vita, priva i giovani d’importanza perché veicola il messaggio: «Tu non sai come va il mondo, io sì; ora ti do la riposta!». Con queste premesse il dialogo non nasce (ma l’oracolo neanche lo vuole!) perché uno dei partner (il giovane) non viene ritenuto all'altezza. L'alleanza educativa si spezza.

Sembra strano, ma far capire (e comprendere noi per primi) che non dare la soluzione al problema che il giovane si trova davanti non è relativismo, ma insegnamento; è un atto di amore, specie quando è lui ad insistere per avere risposte immediate al male-essere che avverte.

Dobbiamo dire, con parole che non possono più essere quelle esortative usate nell'infanzia, che questa loro fase evolutiva è un momento tutto loro e sulla quale noi non abbiamo «diritti»: le sofferenze e le gioie che stanno vivendo appartengono a loro. Noi non possiamo dare risposte ultimative prese a prestito dalle nostre esperienze o dai nostri congelatori. Ciò non vuol di-re starsene in distaccato silenzio, ma assistere come fa un marito premuroso al sorgere di una nuova vita; non potremo mai sostituirci alla gestante ma (questo sì) soffrire e trepidare con lei.

Dunque alla domanda pressante («Dov'è il mio posto?») e a volte rabbiosa («Perché non me lo avete già preparato?») non potremo che sostare con un silenzio che si connota per empatia e che sa parlare: «Quel posto sarà il frutto della tua ricerca; ti sono vicino, sono qui... ti metto a disposizione gli strumenti, ma perché tu lo possa cercare».


Aiutare a capire
Questo tipo di presenza è un invito al giovane a leggere il sociale e capirne criticamente il funzionamento e, nello stesso tempo, un’educazione morale che vede la conferma della validità dei suoi assunti proprio a partire da quella interpretazione del sociale. Queste, sono alcune espe-rienze sociali ma dal forte potenziale morale.
Il corpo e il suo vestito. Liquidiamo come tipiche pazzie dell'età gli abbigliamenti «straccioni» o i decori tribali dei giovani. Altre volte li guardiamo con sguardo vuoto e inebetito. Queste presentazioni esteriori di sé sono invece segnali dell'individualità che il ragazzo o la ragazza propongono a se stessi e agli altri. Con quella gonna corta o con quel pantalone dalla vita bassissima si vuole dire qualcosa dell'interiorità e del proprio modo di collocarsi nel sociale. Alzare le spalle e pensare che «poi gli passerà», è fermarsi alla superficie e non utilizzare l'occasione per allearsi con chi abbiamo davanti e sta cercando di elaborare la propria identità nei suoi vari aspetti fisici, affettivi, sessuali e sociali. D'altra parte, reprimere gli «ombelichi al vento» rischia di di-ventare proibizionismo fine a se stesso, se non si accompagna alla domanda e all'indagine sul che cosa, in quel ragazzo o ragazza, la scelta dichiarata nell'abbigliamento esprime: richiamo affettivo, ricerca di identità, sfida, capitolazione – comoda e già imbrigliata dall'industria – all'ordine costituito…?
Le diversità culturali. Gli aspetti più diretti e quotidiani della globalizzazione incominciano alle scuole elementari dove bambini di tutto il mondo vivono fianco a fianco. Questi contatti con altre culture fanno uscire, molto presto, i ragazzi dalle limitate coordinate che, almeno fino agli anni '70, hanno accompagnato noi adulti. Noi che facciamo? Possiamo partire dalla scommessa che loro sapranno essere migliori di noi e attivamente «stare» nel cambiamento in corso, aiutandoli a leggere con loro i meccanismi economico-finanziari o quelli della rappresentanza in politica. Oppure fomentare (semmai solo con gli occhi) la paura del diverso e la separazione e contrapposizione. Possiamo stimolare i giovani ad elaborare un proprio status culturale che, par-tendo dalla storia individuale e familiare, si apra al nuovo, oppure limitarci a ratificare la loro eventuale chiusura in confortevoli camerette.
Le differenze generazionali. L’esperienza di noi quando eravamo giovani e quella dei nostri ragazzi non sono assimilabili. Fino a pochi decenni fa e per secoli, i figli si trovavano davanti un «compito» già scritto dai padri o dal contesto sociale e dovevano ripeterlo. Ma anche per noi non è stato solo così: siamo nati nel novecento delle due guerre mondiali e in un periodo di modificazioni radicali negli assetti socio-economici. Da un libro, una canzone, un film ripescati dal nostro passato (si pensi a che cosa ha significato negli anni ’70 il film Jesus Christ Superstar), i giovani di oggi potranno capire che anche per noi ci sono stati momenti di solitudine indecifrabi-le e che abbiamo attraversato in un «certo» modo. Si può creare una solidarietà che non è ricerca di anacronistica parità, ma segnale di contiguità emotiva: «...quello che vivi tu lo abbiamo sentito, in altro modo, anche noi». Insieme a ciò si può offrire una domanda che ridimensioni gli appa-renti drammi: «Credi davvero di essere l'unico adolescente o il solo ventenne della storia umana?».
Il confronto con gli ideali. Proporre la nostra esperienza morale e la dimensione spirituale che ci anima è un'altra sfida. Non è più possibile far ricorso alla semplice e categorica affermazione «Qui si sono sempre ascoltate queste parole... anche tu deve crederci». I nostri giovani traggono da ciò che vedono il primo argomento per valutare il bene e il male; la strada che può condurre alle vette dello spirito richiede nuove strategie e termini autentici, non etichette o pozioni magiche.
Il contatto con le espressioni di genio dell'umanità offre la più immediata lettura di quel luogo teologico che è l'uomo («...a immagine di Dio lo creò»; Gen 1,27). L'arte in tutte le sue forme (pittura, scultura, musica...), le profondità della ricerca scientifica, il misurarsi con ambienti e culture lontane, rappresentano occasioni d'incontro e di scontro, di «fulmini» interiori con il mistero dentro cui siamo in viaggio.
Poi c'è la discesa... a terra, cioè il tempo della mediazione, del portare nel quotidiano la dimensione del giusto, del bene, del bello. È qui che veniamo stimolati a diventare artisti nell'educare, nell'accompagnare. È la fase del cosiddetto passaggio del testimone. Le diverse velocità di ognuno dei protagonisti si sincronizzano, si alleano, pur trovandosi in fasi diverse e distanti fra loro: da un lato la conclusione di un percorso, dall'altro l'inizio di un diverso tratto di strada.
Tuttavia l'incontro tra la nostra pratica degli ideali (quella cioè che si misura e scontra nella quotidianità) e le vette dell'eccelso raggiunte dal genio (e ambite dal giovane) possono far nascere nei nostri giovani domande: la mia forza, la mia intelligenza, la mia bellezza possono essere messe a disposizione e offerte in dono? Posso far meglio di chi mi ha preceduto? Posso raggiungere le vette e superare gli ostacoli? Esplicitare le paure più che tacitarle è già un modo per controllarle.
La sana ribellione. Potrà apparire provocatorio, ma dobbiamo dirci che ci piace portare i «nostri» ragazzi per sempre in grembo, quasi fossimo canguri australiani, con il rischio di sopprimerli per... soffocamento. Il nostro ruolo non è quello di addormentare i ragazzi, cullandoli in un’eterna ed irresponsabile giovinezza. Ciò favorirebbe il conformismo e la compiacenza con i quali scambiarsi vantaggi, rassicurazioni e falsità. Eppure, è un ruolo che ci piace perché ci rassicura e ci illude di avere davanti a noi quel bravo bambino come da sempre l'abbiamo desiderato. Lo critichiamo, ma in fondo al nostro cuore, il conformismo dei nostri giovani ci piace: a partire dall'abbigliamento per arrivare alla politica. Invece che nascondere le chiavi del futuro, potremmo partire noi a provocare i nostri ragazzi: «Non hai forse voglia di cambiare, in meglio, questo mondo?».

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