Lo «spirito» nell'indagine psicologica


Editoriale
Tredimensioni 1(2004) 2, 116-121   



Buona parte del lavoro degli psicologi ha a che fare con «costrutti ipotetici», cioè con entità e processi psichici che non sono accessibili alla diretta ispezione dei sensi, ma vengono invocati al fine di poter spiegare i fenomeni che invece sono osservabili.  Intelligenza, memoria, amore, dolore, piacere, desiderio, passione, nostalgia, simpatia, tenerezza, anelito, stima di sé, mente, identità, comunicazione, apprendimento…. sono ipotetici costrutti: alludono a processi o entità che non si possono osservare direttamente, tuttavia sono conoscibili tramite i loro effetti nel comportamento e ad essi ultimamente rimandano i contenuti psichici osservabili, dei quali questi costrutti sono le condizioni di possibilità. Fra di essi c’è anche lo «spirito».  Che l’io umano sia anche spirito non si vede, non si tocca, non si misura, eppure è anche così.

Spirito, anima, intimo sacrario dell’uomo, essenziale umanità dell’io, dimensione spirituale… sono modi diversi per dire che la persona umana ha una capacità originaria di cercare ciò che vale la pena di essere amato con tutta la mente con tutto il cuore e con tutta la volontà. Questa affermazione (che l’io umano si caratterizzi anche per una dimensione spirituale) deve essere affermazione scientifica e non un semplice presupposto ideologico. Perché lo sia, occorre individuare nell’operare umano la presenza di una struttura formale che poi necessita di un contenuto e raccogliere dei segni che rimandano a tale struttura e la invocano come spiegazione plausibile e coerente.


Dentro al soffrire c’è un’anima che piange

Due concetti risalenti alla nascita stessa della medicina e psichiatria e che hanno inaugurato la strada della spiegazione scientifica della personalità umana sono quelli di sintomo e di segno medico. Il sintomo è l’informazione riferita con parole e/o con comportamenti della disfunzione fisica da parte di chi lo accusa. Il segno medico è l’evidenza patofisiologica che sta in relazione di causa con il sintomo riferito e di quello dà ragione. Il primo è ciò che il paziente accusa, il secondo ciò che si misura. In circostanze normali, c’è relazione fra severità del sintomo riferito dal paziente e segni patofisiologici deducibili dalle analisi mediche.

Ma non sempre è così: il paziente può denunciare dei sintomi, ma a quelli non corrisponde l’evidenza di segni patofiosologici. È il caso, ad esempio, della sindrome isterica studiata da Freud dove, appunto, non c’è corrispondenza fra sintomi riferiti e segni osservabili. A questo strano fenomeno la psichiatria del 18.mo e 19.mo secolo diede due spiegazioni. Quando i segni erano pressoché minimi ma il paziente accusava sintomi intensi, il paziente veniva accusato di malizia: uno che gioca a fare il paziente immaginario, per guadagni primari e secondari. Tale interpretazione moraleggiante si spinse (e ancor oggi si spinge) fino al punto di invocare l’influsso di spiriti maligni. Quando, invece, i segni erano molto evidenti ma con sintomi irrilevanti o assenti, si diceva che il paziente era inconsapevole della gravità del suo stato attuale, succube di forze inconsce di varia natura (interpretazione patologica). Quindi: malizioso oppure matto.

Grazie agli studi sull’isteria da parte di Freud, Janet, Breuer e prima di loro di Charcot, si arrivò ad un’altra spiegazione della presenza di sintomi senza corrispondenti segni misurabili. Questi autori, anziché ricorrere a forze più o meno mistiche che spiegassero il perché di sintomi senza segni, iniziarono a parlare di «Io». Superando il dualismo cartesiano, videro nell’io l’unità di corpo e psiche. Freud, sopra tutti, si rese conto che l’io può produrre sintomi senza segni e «servirsi» del corpo per manifestare fenomeni psichici. Questa scoperta dell’io, non tanto come (già si sapeva) nozione metafisica, ma come costrutto ipotetico che spiega il perché di un sintomo senza segni e segna l’avvio dell’indagine del suo ruolo nel disagio umano, fu una pietra miliare per la nascita della moderna psicologia del profondo. Si trattò di una svolta davvero rivoluzionaria: oltre all’interpretazione moraleggiante e patologica della sofferenza incominciò a farsi strada l’interpretazione «spirituale», nel senso che la sofferenza umana può nascere non solo dalla disfunzione degli organi fisici (segni), ma da idee, esperienze, relazioni, aspirazioni insane (sintomi) che sono il lato osservabile di qualcosa che ha vilipeso non tanto il corpo ma il sacrario più intimo della persona. Freud ci ha dunque aiutato a capire che dentro al soffrire non c’è solo una volontà maliziosa o un corpo ammalato ma un’anima che piange.


Lo spirito ridotto ad effetto

Una volta che questo sacrario era entrato a far parte dell’interesse scientifico, bisognava spiegarne il collegamento con le altre componenti della personalità più direttamente sperimentabili. Il dibattito, ben lontano dall’essere a tutt’oggi risolto, si è subito instradato sulla questione natura/cultura (nature and nurture). Si possono spiegare tutti gli attributi umani, dimensione spirituale compresa – affermano i «culturisti» – invocando un qualche antecedente ambientale (l’io si spiega alla luce dell’«intorno all’io»). No – dicono i «naturalisti» – si spiegano meglio invocando una qualche forza inerente all’io (l’io si spiega alla luce dell’«interno all’io»). I moderati invocano un intreccio fra natura e cultura. Le ragioni possono essere diverse, ma resta il fatto che l’io è più condizionato di quanto si possa sospettare. Comunque sia, si tratta sempre di una spiegazione determinista: cambia la fonte del determinismo ma resta il fatto che il sacrario più intimo è spiegabile con gli stessi principi causali che spiegano le azioni degli altri mammiferi. È un sottoprodotto di processi biologici e/o sociali. Sembra che il soggetto sia il primo, ma in realtà è un prodotto derivato.

Quasi per uno strano paradosso, quella psicologia del profondo che riscattò lo spirito dal mondo impalpabile delle idee metafisiche e da quello superstizioso della magia rendendolo realtà desumibile dall'osservazione, è stata la stessa psicologia che lo portò tanto «in basso» da ridurlo a dato contingente e causato. Ad esempio, fino a qualche decennio fa la psicologia del profondo considerava la consapevolezza di sé, l’amore altruista, la libertà, il desiderio di conoscere il vero, amare il bello, volere il buono, l’esigenza di religiosità (tutte attività tipiche di questo sacrario)… come fenomeni ontologicamente equivalenti a tutti gli altri che si realizzano in natura.


Speranza assente

Riconoscere la dimensione spirituale dell’io fino a poterla osservare mentre si esercita in pratica o nei suoi lamenti quando è vilipesa, ma poi considerarla un effetto derivato equivale a sostenere una psicologia senza speranza. In assenza di una spiegazione che preveda la possibilità di trascendere gli influssi delle forze di natura e/o cultura, il presente e il futuro della persona non possono che essere il risultato del suo passato. Inoltre, la stessa psicoterapia si riduce a tecnica, qualcosa che aiuta a contenere questi influssi causali insegnando all’individuo un modo migliore di pianificarsi (cioè di calcolare le probabilità empiriche in modo da manipolarle), ma non diventa un aiuto per sperare (cioè essere artefici del proprio presente e futuro). Quindi, in terzo luogo, la psicologia si è relegata a scienza intimistica dalle scarse rilevanze sociali, incapace di dire alla collettività come garantire il ben-essere, oltre che evitare il disagio. Risultato: il concetto di speranza non ha trovato posto. Questa è una delle ragioni del permanere, a tutt’oggi, del difficile dialogo fra psicologia e spiritualità. Da parte della psicologia: non perché essa non conceda ad altre discipline la liceità di fare una teoria della speranza, ma perché le è avulso il concetto stesso di speranza, per lei non scientifico ma ideologico. Da parte della spiritualità: dialogare con la psicologia le sembra sterile se non addirittura nocivo perché si teme che quella, tutta presa nel dibattito natura/cultura, risucchi nel suo quadro determinista il concetto stesso di spiritualità. E così, a tutt’oggi rischiamo di ritornare nelle secche del vecchio dualismo spirito/corpo che Freud meritatamente superò.


E nell’oggi più recente?
Sebbene Freud sia stato rivisto e a volte sconfessato in tante sue affermazioni, il monismo post-cartesiano da lui individuato è un dato acquisito: l’operare umano è sede empirica ed osservabile di quei costrutti ipotetici che la metafisica aveva già presupposto. Di conseguenza, è acquisita come legittima la ricerca di complementarità fra le conoscenze raccolte dalla scienza sperimentale e quelle studiate dai filosofi prima ancora che la scienza sperimentale nascesse. Altrettanto acquisito è che la riflessione psicologica circa la dimensione spirituale dell’io non può rinunciare completamente al modello della causalità perché – la psicopatologia insegna – questo intimo sacrario subisce duri condizionamenti dalla natura/cultura e –le leggi dell’inconscio insegnano – le forze di questi condizionamenti non tengono conto della realtà, ma influiscono sulla realtà.

Ma ciò che appartiene all’oggi più recente della psicologia del profondo è il nuovo rapporto fra la dimensione spirituale e le altre componenti dell’io: questa dimensione non è un semplice effetto di processi biologici (natura) e/o sociali (cultura) ma informa che l’io è un essere che causa e, quindi, spera. È in atto l’elaborazione di una psicologia in positivo: l’essere umano ha la dimensione contingente della natura/cultura, ma anche quella trascendente dello spirito. È evidente che non può arrivare a questa conclusione senza un concetto di io che includa la dimensione spirituale come suo elemento originario e costitutivo.

Di conseguenza, si aprono nuovi interessi psicologici: la funzione formativa e non solo curativa della psicoterapia (alleviare i sintomi e i segni medici, ma anche alleviare le ingiurie arrecate allo spirito); la spiegazione causale del comportamento (oggi è così perché ieri…) è arricchita dalla comprensione dello stesso in termini di significati di vita (che cosa è umanamente implicato in ciò che sta accadendo?); la ricerca delle radici passate e inconsce (origine atavica delle forze: da dove vieni?) si unisce all’interesse per il qui e ora (organizzazione delle attuali forze: che cosa stai progettando?); il tornare indietro per analizzare un passato già consolidato si unisce al guardare avanti per scoprire come ci si sta progettando per il futuro; lo studio del potere simbolico dell’esperienza come indice del passato che permane, non ignora il modo di organizzare il futuro. Insomma, la speranza sta diventando un concetto fondamentale per la psicologia, visto che studia la vita come effetto di un soggetto che causa, quindi qualcosa tutt’ora in corso, con informazioni che non rimandano alle puntate precedenti, ma ad un futuro più buono. 

Alcuni dei nomi più recenti, non sospetti di precomprensione religiosa della vita e che non solo enunciano, ma rendono ragione della forza causante dello spirito: O. Kernberg (a proposito delle strutture d’amore), R.M. Emde (in prospettiva di psicologia dello sviluppo), L. Kohlberg (in prospettiva di sviluppo morale), L. Rangell (circa il processo decisionale come esercizio di responsabilità), D. Shapiro (circa il significato responsabilizzante della tecnica psicoterapeutica), D.W. Winnicott, W.R. Bion, H. Kohut, K. Menninger, P. Vitz, E. Becker, …

Benché esponenti di scuole di pensiero molto diverse fra loro, il denominatore comune è la scoperta dell’esistere ed operare di forze, appunto spirituali, che possono influenzare la traiettoria suggerita dalle forze della natura e cultura ma a quelle non riducibili né da quelle totalmente determinate e il cui oggetto sono speranze e aspirazioni che trascendono la mera esistenza e continuità come organismi biologici.

L’anima è interesse di psicologia, non come categoria aristotelica, ma come energia dell’io che evolutivamente si struttura per conoscere il vero, volere il bene e amare il bello. Le persone sviluppate non si limitano a saper tamponare i condizionamenti provenienti dalla natura e cultura. Sperano anche di dare un oggetto adeguato e il più evoluto possibile alle esigenze dell’anima. Coloro che nel mondo camminano con la schiena curva hanno bisogno di una psicologia che tuteli i loro diritti vilipesi, con le sue competenze, ma anche in dialogo con le altre scienze dell’anima. 

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